Masaki Kobayashi
Joi uchi, 1967
Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Takeshi Kato, Yogo Tsukasa

 

L'inviato del signore di Aizu estrae dall'aori uno scritto, e lo mostra ritualmente, gridando "Joi!": ordine

Questa è la scena madre del film Joi-uchi del regista Masaki Kobayashi, un'opera poco conosciuta da noi e diffusa altrove in occidente col nome di Rebellion o Samurai rebellion.

Il protagonista, Isaburo Sasahara, impersonato da Toshiro Mifune, decide di "tagliare" (uchi) questo ordine, ribellandosi apertamente per mantenere fede ad un ordine superiore che gli detta la sua coscienza

 



Uomo tranquillo nella vita quanto invincibile con la spada, Isaburo Sasahara, maestro d'armi presso il feudo Aizu, decide di ritirarsi dalla vita attiva lasciando i suoi incarichi e la direzione della famiglia al figlio Yogoro (Takeshi Kato).

Nella scena iniziale del film, girato con buon rigore filologico, lo vediamo intento a provare una spada prima di autorizzarne la consegna al feudatario.

Assiste impassibile, unico in piedi nella scena, il suo migliore amico: Tatewaki Asano (Tatsuya Nakadai).

 

 

 

 

Nel seguito del film Kobayashi, con sottigliezza non apprezzabile dallo spettatore medio, mostra in Sasahara - privo ormai della tonsura del samurai in servizio - un diverso  comportamento e modo di parlare: non essendo più un uomo di comando è obbligato a tenere un atteggiamento umile.

Salvo riprendere le sue prerogative quando è nella sua casa di fronte ad un ospite, anche se di rango superiore. Sarà lui in quei casi ad attendere che l'altro saluti per primo, sarà lui a tenere distante il tono della voce e a rivolgersi agli interlocutori con franchezza,  venendone ricambiato da formule cortesi di sottomissione.

Fosse anche solo per queste attente ricostruzioni del costume feudale giapponese, il film varrebbe la pena di essere visto.

Dopo il ritiro di Isaburo il figlio viene però costretto per ragioni politiche ad accettare in moglie Ichi (Yoko Tsukasa) la sposa ripudiata dal signore locale, da cui aveva avuto un figlio, perché invisa alla moglie principale.

Nel Giappone feudale era usuale la poligamia presso le classi elevate, essendo i matrimoni utilizzati frequentemente per tessere alleanze politiche che si volevano il più possibile estese.

La nascita di un altro figlio dalla moglie principale aveva reso scomoda e sgradita Ichi, che avrebbe potuto tramare per convincere il signore a trasmettere il potere al figlio primogenito piuttosto che al sopravvenuto erede legittimo. Per questo venne preteso il suo ripudio, obbligandola però a lasciare il figlioletto presso la dimora degli Aizu.

Indignati del sopruso, i due Sasahara non vorrebbero accettare la donna, ma sono costretti a cedere anche per evitare rappresaglie contro l'intera famiglia.

Tuttavia iniziano ben presto ad amarla, e il nuovo matrimonio viene dopo alcuni anni di vita felice allietato dalla nascita di una bambina, Tomi. Nessuno dei due ha però dimenticato l'umiliazione subita.

 

 

 

 

 

 

Un secondo ordine, ancora più ingiusto e intollerabile del primo, annienta la felicità della famiglia: l'erede legittimo del feudo è morto. A questo punto ritorna successore il figlio di primo letto di Ichi, cui viene ordinato di ritornare dal precedente marito, non essendo concepibile per il decoro pubblico che l'erede della casata cresca senza la madre.

Yogoro lascia la decisione a Ichi. Lei gli conferma il suo desiderio di restare con lui.

A questo punto la decisione di Yogoro è inevitabile: non accetterà di riconsegnare Ichi.

Ogni tentativo legale di far ritornare il feudo sulle sue decisioni viene però rigettato.

 

Finalmente i due Sasahara, padre e figlio, rifiutano apertamente di aderire all'ordine: licenziano i servitori e i parenti e si trincerano in armi dentro la casa, decisi a resistere con la forza all'oltraggio.

Asano, considerato l'unico in grado di affrontare Isaburo Sasahara con qualche possibilità di successo, richiede un compenso esorbitante: un modo per non opporre un rifiuto aperto.

 

 

 

 

 

 

Viene incaricato allora di riprendere la donna un nutrito drappello in armi.

Durante le febbrili trattative Ichi, tenuta sotto la minaccia della armi, confermato ancora il suo rifiuto, si getta su una delle lance che le vengono puntate contro, dandosi la morte.

Il suo sacrifico, che mira a salvare la vita dello sposo e del suocero, rimane inutile.

Il comandante degli armati ha una reazione inconsulta e ordina di uccidere anche i due.

 

 

 

 

Isagoro Sasahara estrae la spada e si difende.

Yogoro viene trafitto mentre inerme sta tentando di soccorrere Ichi.

Sasahara a quel punto è fuori di se, e stermina senza pietà l'intero reparto, senza che nessuno riesca a opporgli resistenza.

 

 

 

 

 

 

 

Si dedica poi al pietoso compito di dare sepoltura - assieme - al figlio ed alla nuora.

La nutrice, impietrita, è l'unica testimone del momento in cui Isagoro, con Tomi tra le braccia, saluta per l'ultima volta i suoi cari.

Terminato il triste compito, sempre tenendo tra le braccia l'innocente nipotina, si mette in viaggio verso la capitale, per denunciare all'autorità superiore il sopruso e l'ingiustizia che hanno distrutto la sua famiglia e l'hanno obbligato a versare il sangue di valorosi samurai, incolpevoli quanto lui.

 

 

 

A presidiare il posto di blocco c'è proprio Tatewaki Asano, impersonato superbamente da Nakadai (era ora che qualcuno lo liberasse dai ruoli negativi nei quali era stato quasi sempre confinato fino ad allora).

Se prima aveva potuto rifiutarsi ora il dovere - un dovere formale - impone ad Asano di fermare Sasahara.

Un dovere morale impone invece a costui di forzare a qualunque costo il  passaggio.

 

 

 

 

 

Come spiegheremo dopo, la scena fu girata dopo una notte intera passata da Nakadai e Mifune a darsi bel tempo e bere sake, e la mattina nessuno dei due era entusiasta di dover girare, soprattutto in una scena così impegnativa.

Eppure è riuscita perfettamente credibile.

Lo conferma un maestro di arti marziali, e di spada, che era presente alla visione che ha dato origine a questa recensione: Hideki Hosokawa sensei.

 

 

 

 

 

Nella inquadratura che potete vedere nella foto, il duello tra Isaburo Sasahara e Tatewaki Asano è già finito: apparentemente non è successo nulla, i due guerrieri sono immobili nelle rispettive guardie, pronti a riprendere l'asalto.

Durante la propiezione Hosokawa sensei si è lasciato sfuggire - nel momento cruciale - un significativo uh!, ma nessuno degli altri spettatori sembra avere notato nulla; la scena viene arrestata per chiedere chi abbia notato qualcosa: nessuno.

Eppure riprendendo a lasciar scorrere le immagini dopo un attimo Asano si accascia, ferito mortalmente. Il pubblico, non ci sono altri praticanti di arti marziali, chiede di rivedere al rallentatore, ma continua a non notare nulla.

 

Verificai con  Hosokawa sensei se la mia impressione fosse giusta. Sasahara era entrato nella guardia di Asano applicando il principio di ikkyo (la tecnica base dell'aikido), ossia tagliando con la sua spada dall’esterno verso l’interno, come in katatetori aihanmi ikkyo omote. L'azione meriterebbe altre considerazioni sull'eccellente tempo di entrata, classificabile come sen no sen, ossia in contemporanea, senza alcun tempo di reazione.

Una scena pregevole, molto realistica, ma sappiamo che Toshiro Mifune era un cultore della spada, difficilmente avrebbe accettato arrangiamenti troppo disinvolti delle scene di combattimento.

 

 

Considerazioni tecniche a parte, Asano ormai morente afferma una cosa molto importante: non avrebbe mai potuto vincere, perché le motivazioni di Sasahara erano di un ordine etico superiore alle sue, che obbediva suo malgrado ad un ordine ingiusto.

E le sue ultime parole sono un ulteriore sprone per Sasahara: deve raggiungere Edo, portando Tomi con se, e denunciare il crimine.

Rimarranno però vani sia il suo sacrificio della sua vita che la ribellione di Sasahara, che viene fermato dai fucilieri che si trovavano agli ordini di Asano, nemmeno loro possono sottrarsi al dovere.

Gli sbarrano la strada a decine e lo abbattono, mentre tenta di passare il confine ormai a portata di mano.

 

L'innocente Tomi, che era stata messa al sicuro durante l'impossibile tentativo di forzare il posto di blocco, viene raccolta dalla nutrice, che aveva seguito di nascosto il samurai.

Con la piccola stretta in braccio, attraversato il confine approfittando della confusione, si dirige verso la vallata dove sorge la capitale.

Il regista lascia intendere che sarà lei, spronata dall'esempio dei Sasahara, a recarsi presso lo shogun per denunciare il sopruso per chiedere - e forse ottenere - giustizia.

 

 


Il film ci fornisce un esempio, realistico per quanto non reale, delle motivazioni che possono portare un uomo, od una donna, a praticare l'arte marziale: trovarsi nelle migliori condizioni, di corpo ma soprattutto di spirito, per essere capaci di prendere le decisioni più giuste nei momenti supremi, rispettando le posizioni altrui e difendendo le proprie; se necessario fino alle estreme conseguenze, ma rispettando le idee e soprattutto le persone che si trovano dall'altra parte.

Dopo aver assistito a rappresentazioni di questo genere si rimane ancora più perplessi nell'apprendere che tante persone si preoccupino di praticare arti marziali per difendersi nelle risse da taverna o del "realismo" delle tecniche senza proccuparsi molto del realismo e della sincerità del proprio atteggiamento interiore

Propongo al lettore queste riflessioni, questi spunti, perché così abbiamo deciso di fare ogni volta che ce ne capiti l'occasione: io ed Hosokawa sensei; e mi prendo volentieri questo difficile compito che mi affida il mio maestro; si tratterà infatti di un dialogo impervio, in condizioni molto difficili, e che richiederà disponibilità, sensibilità, pazienza.

Una lunga intervista a Tatsuya Nakadai accompagna il dvd; Nakadai, personaggio sinistro in tutti i suoi primi film e povero vecchio, fuscello sballottato dagli eventi,  in Kagemusha e soprattutto in Ran, è nella realtà - nel 2005 quando venne girata l'intervista - uno splendido signore di 73 anni, con una corta barba bianca e un sorriso contagioso ad illuminare gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali.

Ricorda con grande umorismo i bei tempi in cui girava queste "penose scene di duello" con Mifune, dopo che avevano passato la notte in bianco bevendo sake e dandosi bel tempo.

Tanto poi nel duello finale - commenta sarcastico - "mi si uccide, come d'abitudine”.

Ha esordito, pochi se ne sono resi conto, in un film celeberrimo: I sette samurai.

E' proprio lui il giovane samurai che appare per primo durante la ricerca per le affollate strade del paese.

Pochi istanti mentre cammina ignaro e spensierato, sottoposto a sua insaputa agli sguardi indagatori di Kanbei alla ricerca di guerrieri da assoldare per il suo difficile incarico.

Ha avuto pochi anni dopo Joi-uchi - probabilmente a causa della notorietà arrivatagli anche in occidente dopo essere stato l'antagonista in Yojimbo - una partecipazione in un western all'italiana diretto da Tonino Cervi in cui faceva la parte di un messicano; ha conosciuto quindi l'Italia, e ne conserva un ricordo molto piacevole: trova che i tanti paesini italiani abbarbicati sulle montagne ricordino molto i paesi giapponesi dell'epoca Edo, vicini tra di loro fisicamente ma allo stesso tempo molto lontani culturalmente: quasi diverse nazioni, nonostante il Giappone non avesse frontiere nazionali.

Non ha mai parlato italiano o inglese (l'intervista è in giapponese e io seguo attraverso i sottotitoli in francese), quindi per forza di cose se ne stava quasi sempre zitto senza poter scambiare una parola, atteggiamento che a sentirlo invece parlare nella sua lingua con tanta naturalezza e simpatia dovrebbe essere molto lontano dal suo vero modo di essere; osserva che girare un film in Italia gli sembrò molto differente da quello cui era abituato.

Durante le riprese tutti parlavano, tutti si davano da fare, e al momento di girare nessuno era al suo posto, nessuno stava zitto; il povero regista si doveva ogni volta sgolare per richiamare tutti all'ordine e pregare di piantarla con quella confusione per mettersi a lavorare. Una volta che proprio non gliela faceva più, indicò col dito Nakadai, di cui sappiamo ora che non apriva bocca perché non avrebbe proprio potuto, dicendo: "Guardate Nakadai, sta lì zitto ed aspetta gli ordini: è un vero samurai!"

Il racconto ci ha molto divertito, al punto di sentire il bisogno di scambiare un'occhiata, densa di significato, con Hosokawa sensei: quanto volte abbiamo preso fischi per fiaschi gli uni degli altri, fidandoci delle apparenze? certo, da quando conosco il maestro molta acqua è passata sotto i ponti, e perlomeno tra noi due questo genere di equivoci è diventato meno probabile.

Non si creda che Nakadai sia solo un buontempone. Nell’intervista esprime diversi concetti complessi e profondi, lamentando la scomparsa della cultura del bushido in cui lui è cresciuto. Ritiene che i film chambara abbiano sì cercato di soddisfare la voglia di evasione del pubblico, ma si siano spesso richiamati anche ad una cultura samurai che merita la conoscenza ed il rispetto  dei moderni.

Cita ad esempio il grande affresco corale di “Sichinin no samurai”, cui ha partecipato in quel ruolo minore: quale grande lezione quella dei samurai che accettano di lottare e di morire in cambio di tre pasti al giorno, per difendere chi non è in grado di farlo da solo.

 

 

Anche i suoi frequenti duelli con Toshiro Mifune, vengono da lui analizzati con notevole spessore psicologico e morale.

Un suo personaggio, il samurai senza scrupoli  Hanbei Muroto, viene definito dal protagonista Tsubaki Sanjuro, dopo averlo ucciso nel cruento duello finale, come un nukimi: una “spada nuda”.

Nakadai spiega che si tratta di un tipico modo di dire samurai, che indica la persona che non riesce a stare nel suo “fodero”, lasciando uscire dall’animo quanto dovrebbe rimanere dentro, sotto controllo.

 

 

 

 

Infine, la sua analisi del difficile ed intenso rapporto tra due uomini che si rispettano e provano simpatia ma devono confrontarsi in un duello mortale, che si ripresenta anche nel caso di Joiuchi, è assolutamente degna di rispetto e condivisione.

Per fortuna ce l'ha voluta proporre non con un interminabile pappone filosofico, ma attraverso una piacevole chiacchierata non priva come abbiamo visto di sottile umorismo.

Kwaidan
Regia: Masaki Kobayashi, 1965
Rentaro Mikuni, Tatsuya Nakadai, Kaiko Kishi,
Katsuo Nakamura, Tetsuro Tamba, Takashi Shimura,
Kanenon Nakamura, Michiyo Aratama

 

E' bizzarro pensare che alcuni tra i racconti fantastici più famosi in Giappone sono stati scritti da un irlandese di madre greca. Questo filmè composto infatti da quattro episodi tratti dalle opere di Lafcadio Hearn, della cui vita parliamo altrove.Lo dirige Masaki Kobayashi, reduce dalla impegnativa opera Seppuku e che dirigerà poi Joi uchi, storia della disperata ribellione di un samurai contro le ipocrisie e le convenzioni della società benpensante.

Nel primo episodio, "Capelli neri", un samurai ambizioso abbandona la donna amata per cercare il riscatto da una vita di miserie; ma non resisterà, e alcuni anni dopo abbandonerà tutto per ritornare da lei. Entrato senza far rumore nella loro vecchia casa, la vede all'interno della stanza dove passavano le loro giornate, con i lunghissimi capelli neri sciolti...

 

 

In La donna della neve un giovane boscaiolo (Tatsuya Nakadai) è salvato da una morte sicura in mezzo alla tormenta dall'intervento di un misterioso genio femminile, che gli impone di non far mai parola ad alcuno del loro incontro.

Il giovane conoscerà poi una giovane di passaggio, la sposerà con lei una vita felice. Fino al giorno in cui, incautamente, le parlerà di quel lontano incontro.

 

 

 

 

 

 

 

Oichi senza orecchie è il giovane accolito di un monastero che sorge vicino allo stretto di Shimonoseki, ove si svolse centinaia di anni prima la cruenta battaglia navale in cui il clan dei Genji annientò quello degli Heike. L'abate del convento è impersonato da Takashi Shimura, il prezzemolo del cinema giapponese; come sempre credibilissimo qualunque sia il ruolo, l'abito che indossa, l'epoca in cui si ambienta l'azione.

Ogni notte il giovane Oichi scompare, e riappare solo all'alba rifiutandosi di dire dove è stato. Solo l'affettuosa insistenza dell'abate riuscirà a svelare la verità: i fantasmi dell'armata degli Heike mandano ogni notte un guerriero (Tetsuro Tamba) a prendere Oichi, che canti accompagnandosi col liuto la leggenda degli Heike.

Per sottrarlo agli spettri l'abate deciderlo di ricoprirlo dalla testa ai piedi di sutra, scritture sacre che lo rendano invisibile agli spettri. Ma il monaco incaricato della scrittura ha una fatale dimenticanza.

Nell'ultimo episodio, Una coppa di te, un samurai dissetandosi scorge un volto riflesso all'interno di una tazza di te. La getta via e ne prende un'altra, ma anche dentro questa appare un volto.

E' solo l'inizio di una sconvolgente avventura.

Masaki Kobaysahi si trova a suo agio nel ricreare l'atmosfera incantata e spettrale tanto cara ad Hearn, ed è un peccato che non abbia più affrontato queste tematiche. Una menzione particolare va al terzo episodio, in cui la terribile battaglia tra i Genji e gli Heike è resa con una recitazione ieratica ed misto di stilemi che richiamano le stampe d'epoca, ed il teatro tradizionale giapponese.

Masaki Kobayashi: Harakiri

1962

Tatsuya Nakadai, Rentaro Mikuni, Tetsuro Tamba, Akira Ishihama, Shima Iwashita, Masao Mishima

 

Se la lunga collaborazione tra Akira Kurosawa e Toshiro Mifune ha fatto sì che i due grandi artisti venissero automaticamente associati nella immaginazione degli spettatori, altrettanto proficua fu la collaborazione tra Masaki Kobayashi e Tatsuya Nakadai. 

Anche Kurosawa si avvalse delle straordinarie doti di interprete di Nakadai. Era già presente come antagonista di Toshiro Mifune in Yojimbo (quasi sempre trascritto Yoshimbo nelle edizioni occidentali) e poi in Sanjuro, nonché protagonista nell’opera di ambientazione gendai (moderna) Anatomia di un rapimento. In seguito lavorò soprattutto con Kobayashi prima di tornare  sotto la direzione di Kurosawa prima in Kagemusha e infine in Ran, i due ultimi capolavori jidai, ossia d'epoca (la parola chambara si riferisce invece ad un genere più avventuroso e disimpegnato che potremmo rendere con il nostro "cappa e spada).

Harakiri fu diretto nel 1962 e se non fu la prima opera in cui collaborarono Kobayashi e Nakadai, basti ricordare il celebre ciclo di film gendai La condizione umana, fu la prima con cui varcarono i confini del Giappone riscuotendo un successo internazionale.

Il film arrivò anche in Italia in quanto il successo di critica e di pubblico riscosso da molte (non tutte) opere di Kurosawa autorizzava grandi speranze per il cinema giapponese. Ma circolò invece quasi clandestinamente, scomparendo in breve dalla circolazione: troppo cruda la trama, troppo cruente le rappresentazioni per la sensibilità dell’epoca. Forse la cultura che dava origine e credibilità a questo genere di opere era ancora troppo lontana dalla nostra conoscenza e quindi dalla possibilità di pieno apprezzamento da parte nostra.

Paradossalmente, in una società che si considera più avanzata e più sensibile rispetto a quei tempi, fino al punto di eliminare dal suo vocabolario termini utilizzati per millenni o di coniare definizioni grottesche come “diversamente abili” per timore di rinfacciare a persone innocenti le loro debolezze e le loro sfortune, le cruente scene di Harakiri sembrano ormai banalmente ordinarie. Ai giorni nostri vediamo ben di peggio, quotidianamente, non solo al cinema ma anche ad ogni fascia oraria della tv, e quel che è peggio senza alcuna apparente ragione, senza alcuna giustificazione fornita dalla trama: violenza pura e semplice fornita come intrattenimento.

Naturalmente il pubblico benpensante si scandalizza per i barbari costumi delle società rappresentate sullo schermo, che siano quelli  della antica Roma o del Giappone feudale, ma poi si affolla davanti a schermi e teleschermi per vedere la morte che si fa spettacolo.

Non stupiamoci allora che anche in Gohatto (2001) e Mibugishiden (2003) si rappresenti sullo schermo il seppuku, sia pure in contesti, epoche e trame diverse; ma nemmeno che la macchina da presa invece di arrestarsi al momento fatale ci mostri platealmente due decapitazioni, ugualmente raccapriccianti eppure - ormai - terribilmente banali. E sono, si badi bene, opere di registi di vaglia e che hanno riscosso unanimi consensi di critica,

Ma è il momento di iniziare a parlare di “Harakiri”.

Il termine harakiri (taglio del ventre, (腹 切り) viene considerato scorretto e da evitare in Giappone, ma è il più noto in occidente e probabilmente per questo il film è conosciuto col titolo Harakiri. Il titolo originale che viene  riportato nei titoli di testa e nella locandina originale è invece Seppuku (切 腹, scritto con gli stessi ideogrammi ma invertiti), quello più appropriato

L’azione si svolge nel 1630 quindi agli inizi dell’epoca Tokugawa, circa una generazione dopo la battaglia di Sekigahara che ponendo fine alla lunga guerra di successione segnava l’inizio dell’epoca Edo, che venne definita anche l’era della “pax Tokugawa”.

Un periodo ininterrotto senza guerre durato circa 200 anni, che paradossalmente creò non poche e non lievi crisi di assestamento nel sistema sociale giapponese poiché furono gettati di colpo nella povertà più assoluta, e con l’interdizione rigorosa di dedicarsi ad attività di lucro, le centinaia di migliaia di samurai che erano stati reclutati nel torbido periodo precedente, quando si richiedevano grandi masse di guerrieri libere da ogni vincolo economico e sociale, che si dedicassero completamente alla formazione prima e alla battaglia poi.

Nel 1630 ci troviamo nel periodo più critico di questo processo di assestamento, quando ancora non sono concluse le sanguinose guerre con cui Tokugawa e i suoi alleati consolidarono il potere eliminando le ultime sacche di resistenza o liberandosi di alleati infidi e allo stesso tempo numerosi clan vengono sciolti perché legati al feudatari sconfitti o perché non più considerati necessari nel crudele gioco politico. Assieme ai daimyo e samurai ritrovatisi di colpo senza terra e senza rendite, ma ancora soggetti alla interdizione di lavorare, precipitarono nella miseria le loro famiglie. 

Nel registro del clan Iyi, che è sopravvissuto alle tempeste epocali anzi ne esce rafforzato predando le ricchezze dei clan disciolti, in quella giornata del tredicesimo giorno del quinto mese si segnala che non è successo nulla di particolare.

Si ricorda solamente che la giornata è stata torrida e che in mattinata il feudatario Bennosuke ha portato in omaggio al signore di Doi delle trote fresche pescate nel fiume Shirakawa, nel dominio del clan. Tra le annotazioni minori si segnala tuttavia  l'arrivo nel pomeriggio di un samurai già alle dipendenze della casata dei Fukushima in Hiroshima.

 

 

E' divenuto un ronin, un “uomo onda”, un samurai senza più padrone; ridotto allo stato di indigenza dopo lo scioglimento della casata cui prestava obbedienza, senza più alcuna speranza di riscatto sociale. Chiede che gli venga concesso l'uso della corte della dimora per compiervi seppuku, terminando il suo percorso su questa terra con un onorevole suicidio per mezzo della sua lama più fidata: il wakizashi , che il samurai non abbandona mai, mentre la lunga katana viene lasciata all’ingresso delle case private e dei luoghi pubblici. L'uomo si presenta infatti con il daito, la spada lunga, già impugnata con la mano destra in posizione neutrale e non portata alla cintura.

Il wakizashi (脇差:わきざし) ossia “arma da lato” è una lama compresa tra 1 e 2 shaku di lunghezza utile (30-60 cm), portata in coppia con la katana con cui costituisce il dai-sho (grande-piccola, sottintendendo il termine spada). Il porto di questo tipo di daisho, obbligatorio per la classe samurai, si afferma a partire dal XVII secolo. Continuò ad essere utilizzato ai soli fini cerimoniali il daisho precedente, costituito dal lungo tachi (di solito oltre 2 shaku e 5 sun, circa 75 cm) e dal tanto (sotto 1 shaku, ossia 30 cm).

Come detto prima lo scioglimento di numerose casate aveva di colpo precipitato in una situazione drammatica decine di migliaia di samurai assieme alle loro famiglie. Di conseguenza questo genere di richieste si era talmente diffuso da creare un notevole allarme in tutte le casate privilegiate, scosse anche emotivamente dal vedere uomini d’onore abbattuti dallo stesso destino che sarebbe potuto toccare da un momento all’altro anche a loro, e divise tra due tendenze contrastanti e inconciliabili.

Mossi da pietà alcuni daimyo avevano offerto ai ronin disperati l’assunzione nei loro ranghi. Moltiplicandosi a dismisura questi casi non fu più possibile provvedere a tutti; si iniziò a elargire somme di denaro che permettessero ai disederati di rimandare per qualche tempo la decisione estrema, per poi tuttavia congedarli senza acconsentire alla richiesta. Ma questo aveva causato una ulteriore esasperazione del fenomeno: molti disperati si presentavano senza alcuna intenzione di compiere veramente seppuku ma solo per la speranza di essere assunti o perlomeno di ricevere l’offerta in denaro.

Alcune casate decisero allora una linea di fermezza, obbligando i seppukusha ad eseguire immediatamente, e con le più rigide modalità tradizionali, quanto da loro richiesto. Tra queste, nella trama dell'opera, la casata di Iyi.


 

Il samurai presentatosi alla dimora degli Iyi (Tatsuya Nakadai) si presenta formalmente: è un ronin, già legato alla casata Fukushima di Hiroshima, e si chiama Hanshiro Tsugumo, “tsu come porto e gumo come nuvola”.

Presentarsi indicando con quali ideogrammi andava scritto il proprio nome era una pratica necessaria: venivano frequentemente sostituiti con altri ideogrammi dallo stesso suono ma con diverso significato, per rimarcare un nuovo momento nella vita nella persona.

Ma anche senza questa usanza la ricchezza di omofoni della lingua giapponese rende impossibile risalire alla scrittura del nome semplicemente ascoltandolo.

 

Tsugumo chiede con un atteggiamento rispettoso quanto fiero che gli venga concesso l’estremo favore, e qualcosa in lui induce l’intendente di palazzo a non liquidarlo in qualche modo ma a chiamare in prima persona il gokarô (御家老=dignitario) Kageyu Saito, sovrintendente della tenuta. E' interpretato da Rentaro Mikuni, indimenticabile protagonista anche in L'arpa birmana di Kon Ichikawa).

Sarà questultimo che turbato accennerà al ronin di un precedente episodio: la stessa richiesta era stata avanzata poco tempo prima da un giovane samurai, anche lui appartenente in passato alla casata di Fukushima. C’è forse qualcosa in comune tra i due?

Tsugumo nega. Ma lo svolgersi successivo degli eventi dimostrerà che non solo un legame esisteva, ma era anche stretto, indissolubile, e che rappresenta la ragione stessa della presenza di Tsugumo proprio in quel luogo e non in un altro, e della sua estrema decisione.

Il mistero del legame tra i due samurai non verrà sciolto immediatamente: come di consueto in molte rappresentazioni artistiche giapponesi la verità viene svelata gradualmente, in modo quasi insopportabilmente lento ed ambiguo eppure avvincente e coinvolgente, fino alla esplosione della catarsi finale che giunge quasi come liberatoria, per quanto cruenta.

Il lungo racconto di Tsugumo, già in posizione di seppuku nel cortile, di fronte ai dignitari in abito ed atteggiamento formale, esplicita l’esigenza di porre un termine onorevole al suo cammino, ormai giunto irrevocabilmente al tramonto, ma anche e soprattutto quella di rivendicare il proprio onore e la propria dignità, protestare contro l’ingiustizia patita e chiedere, con l’autorità ed il distacco di chi sta abbandonando tutto, che la casata di Iyi prenda atto dei suoi errori.

Tsugumo non verrà ascoltato. Eppure aveva offerto spontaneamente la soluzione più facile e dignitosa al grande problema che aveva posto di fronte alla coscienza dei seguaci di Iyi: il suo seppuku. L’ira di Saito prenderà il sopravvento e si rivolgerà, come spesso succede, contro l’incolpevole ambasciatore di un messaggio che non gli appartiene. Ma l’infausta decisione gli si rivolgerà contro, la conseguente ira di Tsugumo, ferito in quanto di più caro e sacro ha un essere umano, provocata dall'ira di chi avrebbe dovuto comprenderlo, travolgerà tutto e tutti.

Tutte le persone e istituzioni coinvolte finiranno per pagare un prezzo ben più caro di quello, sia pure elevato, che Tsugumo aveva intenzione di chiedere inizialmente.

 

Per la morale occidentale media forse il finale è eccessivamente amaro.

Della tragica missione portata fino in fondo da Tsugumo Hanshiro, non rimarrà traccia.

La verità ufficiale sarà scritta dai suoi antagonisti, che celeranno per sempre quanto accaduto non facendone alcuna menzione nel registro della casata, che chiude la pagina di quella torrida giornata del quinto mese accennando solo di sfuggita all'atto di pietà avuto verso un oscuro ronin.

Ma sarà evidente, per quanti  avranno seguito fino in fondo avvinti davanti allo schermo l’odissea del ronin solitario che lui ha fatto quanto riteneva giusto ed inevitabile fare.

Ha accettato le conseguenze delle azioni e delle opinioni altrui senza darsene peso, senza consentire che influissero sulla linea di condotta da lui ritenuta giusta e sacrosanta.

E nemmeno si è lasciato condizionare dalla conoscenza e dall’apprezzamento delle sue azioni che potessero avere o non avere i posteri: ha fatto quanto doveva fare, e può abbandonare sereno la sua vita mortale.

Che la verità venga celata ha rilevanza solo per chi non è stato protagonista o spettatore della vicenda: smascherando l'ipocrisia della casata di Iyi e profanandone materialmente il simbolo, la rossa armatura della casata custodita nel sacrario, Hanshiro Tsugumo non solo vince la sua battaglia ma obbliga gli avversari a riconoscere con se stessi la loro sconfitta, che riescano o meno a celarla all'esterno.

Da una società e da una cultura che il nostro apprezzamento e il nostro studio non riescono ancora tutto sommato a svelare e apprezzare completamente, arriva nonostante tutto un messaggio chiaro ed universale.

 


Il sovrintendente Saito è visibilmente turbato dalla visita di Tsugumo e dalla sua richiesta.

Che gli ricorda un altro triste episodio.

Ha forse Tsugumo conosciuto o sentito parlare di Motome Chijiiwa? Era anche lui un ronin proveniente dal feudo dei Fukushima.

Tsugumo afferma che il nome non gli ricorda nulla, e che era impossibile conoscere tutti in un feudo avente al suo servizio nei giorni di prosperità 12.000 samurai.

Saito inizia il suo racconto: pochi mesi prima, in gennaio, questo ronin si era presentato alla tenuta degli Iyi, e per fare la medesima richiesta.

 

 

Motome Chijiiwa era poco più di una ragazzo.

Anchegli aveva spiegato che la rovina del signore Masanori Fukushima lo aveva travolto, e che invano aveva cercato un nuovo impiego: in tempi di pace non vi era più posto per molti samurai.

Richiedeva quindi l'uso della corte per porre onorevolmente fine ai suoi giorni, al riparo dello sguardo  dei curiosi.

 

 

 

 

 

 

In assenza del signore Iyi che si trova nelle terre di campagna, Saito aveva immediatamente radunato il consiglio per esaminare la richiesta, che non era inedita: sia nel feudo degli Iyi che in quelli vicini ne pervenivano in continuazione.

Nel feudo di Sengoku il consiglio, ammirato dal sangue freddo e dalla dignità di uno dei richiedenti, aveva deciso di assumerlo al proprio servizio risparmiandogli un inutile sacrificio.

Altri feudi avevano seguito l'esempio, ma limitandosi a congedare i richiedenti con una somma di denaro che potesse essere loro sufficiente per qualche tempo.

Naturalmente questo aveva causato un continuo andivirivieni di ronin presso ogni dimora signorile, senza alcuna intenzione di compiere veramente seppuku ma sicuri di essere congedati con il pagamento di una somma. Il consiglio si sta orientando ad adeguarsi all'uso corrente, per congedare il giovane con qualche parola di conforto ed un regalo in moneta liquida.

Si oppone fermamente il consigliere Hikokuro Omodaka (Tetsuro Tanba). Sarebbe l'inizio di una processione inarrestabile, che infangherebbe il nome della casata. Ma soprattutto non è lecito comportarsi disonorevolmente per ottenere del denaro come è uso di questi ronin mendicanti, e la casata non deve trasgredire il codice di onore.

L'unico mezzo per porre fine a queste incessanti richieste è di esercitare fermezza.

Il giovane Chijiiwa viene trattato con estrema cortesia, e invitato dalla guardia del corpo Kawabe a fare un bagno, poi  fornito di vesti nuove più adatte ad un incontro formale col signore Bennosuke, figlio del feudatario, che esaminerà il suo caso.

Quando viene convocato dopo una lunga attesa incontra però Omodaka, che lo invita a cambiare nuovamente abito, presentandogli un completo bianco: quello indossato durante la cerimonia del seppuku.

Il ragazzo, già convinto che sarà assunto dalla casata o perlomeno che riceverà una somma adeguata alla importanza del feudo, è terrorizzato, e chiede che ne è del previsto incontro col signore Bennosuke.

Omodaka gli riferisce che si è dovuto mettere improvvisamente in viaggio, ma ha esaminato il caso. Il suo parere è che sarebbe vano distogliere un samurai da una decisione così grave, evidentemente presa dopo matura riflessione.

Quindi, per quanto avrebbe gradito prenderlo al suo servizio, si adegua al suo volere e desidera che la cerimonia abbia luogo nel più breve tempo possibile.

Invano il ragazzo chiede un rinvio, Omodaka è irremovibile e gli ricorda che tutto è pronto, e per sua esplicita richiesta, e che la parola di un samurai deve essere sacra.

Chijiiwa tenta la fuga, ma invano: la casa è presidiata da numerosi uomini armati e pronti e tutto.

Il consiglio che gli dà Omodaka è di rassegnarsi al suo destino e morire con onore, piuttosto che essere tagliato in due come un pesce mentre tenta inutilmente di sottrarsi alla morte, perdendo allo stesso tempo la vita e la dignità.

I protagonisti della vicenda si preparano alla sua conclusione, ognuno a suo modo. Saito si è recato nel santuario degli Iyi per interrrogarvi i simboli della casata: l'armatura e la spada utilizzati in battaglia dal capostipite.

Rivendica l'onestà del suo operato, pur non potendo garantirne la saggezza.

Ha inteso salvaguardare con la sua decisione, fredda ma necessaria, allo stesso tempo l'onore della casata e quello dei samurai.

La maschera dell'armatura sembra fissarlo, impenetrabile. Ma non gli può dare alcuna risposta.

Chijiiwa è stato invece lasciato solo in una stanza, che è comunque sorvegliata da uomini armati, rivestito della bianca tenuta del seppukusha, solo con i suoi pensieri.

I samurai di servizio si sono radunati per preparare gli ultimi dettagli della cerimonia, ma faranno una scoperta che renderà ancora più tragica la vicenda.

I foderi delle armi di Motome Chijiiwa non contengono in realtà alcuna lama, ma solamente gli tsunagi: le false lame di legno o bambu utilizzate per montare assieme le varie componenti della fornitura mentre la lama non vi viene utilizzata.

E' evidente che Chijiiwa ha venduto le sue spade, mantenendo la fornitura perché per i samurai era obbligatorio indossarle in pubblico. E' una delle più gravi violazioni dell'etica samurai che si possa immaginare, tutti i presenti ne rimangono indignati.

Oltretutto la scoperta rende ancora più palese l'assoluto disinteresse di Chijiiwa verso il seppuku. Era veramente ed incontestabilmente venuto solamente per mendicare.

Probabilmente all'insaputa del sovrintendente Saito, Omodaka ha deciso di punire atrocemente il giovane indegno samurai.

Ricorda che col tempo la cerimonia si è andata evolvendo ed è divenuta a volte quasi simbolica, con l'assistente pronto a dare il colpo di grazia non appena il seppukusha allungherà la mano verso la lama, talvolta rappresentata anchessa simbolicamente da un semplice ventaglio.

Storicamente il particolare è inesatto, solamente nel periodo Yempo ossia circa due generazioni dopo si affermarono queste consuetudini (Mitford, Tales of Ancient Japan, 1871), ma questa infedeltà è necessaria ai fini della trama.

Per rispetto della casata e delle tradizioni Omodaka intende però procedere seguendo le rigide regole originarie: il seppukusha dovrà aprirsi il ventre con la lama prima di ricevere finalmente il colpo di grazia, che sarà lo stesso Omodaka a vibrare.

Solo allora Motome Chijiwa apprende con orrore che dovrà affrontare la prova con il proprio wakizashi, la cui lama di bambu, secondo il colorito commento di un samurai, non riuscirebbe a tagliare il tofu (formaggio di soia).

Solo facendo appello ad ogni estrema risorsa e dopo lunghi tentativi infruttuosi quanto oscenamente tragici Motome riesce ad immergere la lama nel ventre.

 

 

 

 

 

Non è ancora abbastanza per l'inflessibile Omodaka: esige che il giovane esegua anche i due tagli previsti, il primo orizzontalmente ed il secondo verso l'alto.

Solo a quel punto interviene, ponendo fine alle sofferenze di Motome Chijiiwa.

 

 


Durante il lungo racconto Hanshiro Tsugumo è rimasto imperturbabile, come del resto sempre in ogni suo momento.

Anche quando educatamente fa segno di assenso o meraviglia, e soprattutto nei rari momenti in cui sorride, il suo aspetto è inquietante.

Quando si muove, solo Nakadai e Mifune avevano questa straordinaria dote, desta l'impressione di una persona che ha il completo controllo non solo di se stesso ma anche dell'ambiente circostante e delle persone che gli stanno incontro, di un guerriero contro cui è vano pensare di poter vincere.

Rassicura il sovrintendente: la sua spada non è di bambu, ed è venuto fin lì solamente per morire.

La sua rassicurazione sembra piuttosto, per ragioni inspiegabili, una oscura minaccia.

Tsugumo sembra voler concludere presto la sua missione: rifiuta il conforto di un bagno, declina l'offerta di nuovi abiti da cerimonia, ritenenendo più coerente affrontare la morte con gli stessi abiti con cui affrontava la vita, e chiede di procedere.

E' ora lui a trovarsi in seiza nel cortile della tenuta, e di fronte a lui sono schierati tutti i dignitari.

Ed inizia qui materialmente il suo lungo duello contro la casata degli Iyi, scandito da logoranti rinvii ed improvvise accelerazioni dei tempi con cui condiziona a suo arbitrio il corso degli eventi e annienta la resistenza psicologica del clan.

Il sovrintendente Saito gli presenta il kaishaku designato, il samurai incaricato di essergli secondo nella cerimonia e dargli il colpo di grazia, che è in piedi come di consueto alle sue spalle, sulla sinistra. E' una posizione che di conseguenza andrebbe evitata, e che l'etichetta interdisce nei dojo di arti marziali.

Tsugumo lo rifiuta come suo diritto. Chiede che venga designato come kaishaku Hikokuro Omodaka, di cui ha sentito parlare come di un grande maestro della scuola di spada Shindo Munen Ichi.

Saito acconsente, ma viene a sapere con stupore che Omodaka si trova nella sua dimora, in seguito ad un malessere. Invia degli uomini a chiedere che intervenga, se le sue condizioni lo permettono.

Nella forzata attesa - da lui stesso deliberatamente provocata ma lo comprenderemo solo dopo - Tsugumo, premesso di avere in realtà qualcosa a che fare con lo sventurato giovane cui era stato imposto il seppuku in precedenza, chiede di narrare la sua storia.

Nel 1619, 11 anni prima, era un fiero samurai di alto rango al servizio dei Fukushima. Il suo migliore amico era Jinnai Chijiiwa. 

Entrambi vedovi, vivevano solo per i loro figli: Motome Chijiiwa, di 15 anni, e Miho Tsugumo, di 11.

 

In brevissimo tempo il mondo di Tsugumo era precipitato.

Per uno scandalo legato all'appalto per la costruzione delle mura di un castello, il feudo era stato messo sotto inchiesta.

Jinnai Chijiiwa aveva commesso seppuku senza alcun cenno che lo lasciasse prevedere, assumendosi la colpa dello scandalo e incaricando Tsugumo di pensare al figlio Motome, a se stesso e alla piccola Miho.

 

 

 

 

 

Il sacrificio di Chijiiwa sarà vano: lo scandalo travolgerà l'intera casata.

Il signore di Fukushima abbandona a sua volta la vita compiendo seppuku. Negli attimi precedenti la cerimonia, che compie come suo diritto in qualità di nobile non nella corte ma nell'interno del palazzo, convoca Tsugumo.

Gli interdisce di compiere a sua volta seppuku: la sua missione è di vivere, resistere alla disgregazione del clan e assicurare una serena esistenza ai due ragazzi. 

 

 

 

 

Ritorna in quel momento l'uomo incaricato di chiedere l'immediata presenza di Omodaka. I familiari gli hanno confermato che non è in condizioni di muoversi, e la sua richiesta di vederlo è stata rifiutata, con la motivazione che il samurai non riteneva opportuno farsi vedere mentre era in cattive condizioni.

A Tsugumo viene richiesto di designare un altro kaishaku. Richiede Hayato Yazaki, l'uomo che aveva scoperto che il fodero di Chijiiwa conteneva solamente un simulacro di spada, ed aveva proposto di obbligarlo a compiere seppuku con esso.  

Sorprendentemente anche Yazaki si è dichiarato malato e non è presente. Si impone una nuova scelta e Tsugumo richiede Umenosuke Kawabe, parte attiva nell'inganno e tra i più solerti nel richiedere la linea dura nei confronti dello sventurato Chijiiwa. Anche lui non è presente.

Tsugumo si dichiara stupito della strana coincidenza. Ed insinua che una casata in cui i più valorosi samurai si ammalano così facilmente quando è richiesta la loro presenza non dia una buona immagine.

Le inquietudini di Saito di fronte al misterioso samurai cominciano a trovare le prime conferme.

Ritiratosi con i consiglieri anziani, esaminano assieme la situazione.

Non è chiaro cosa sia venuto a fare Tsugumo e perché, e Saito pur sentendo che è un personaggio degno di rispetto, pur avvertendo il rimorso della fine orribile cui è stato obbligato il giovane Chijiiwa, ritiene che il buon nome della casata degli Iyi vada preservato a qualunque costo.

Occorre ingiungere a Tsugumo di compiere al più presto quello che è venuto a fare, senza ulteriori indugi.

In caso di resistenza gli uomini di guardia dovranno lanciarsi contro di lui e finirlo immediatamente.

Tsugumo rifiuta sdegnosamente: ha dirittto di scegliere il suo kaishaku, richiede di darsi la morte volontariamente, per non lasciare alcuna macchia sul suo onore: non è un volgare malvivente.

Un nugolo di samurai si getta allora su di lui, con le armi sguainate, ad un ordine del sovrintendente.

Tsugumo, furente ma senza opporre resistenza, ordina loro di fermarsi. Misteriosamente gli uomini sentono di doversi fermare, e attendono a debita distanza.

Tsugumo ammonisce Saito: se insisterà a voler ricorrere alle armi scorrerà molto sangue di valorosi samurai, di nulla colpevoli.

Non sarebbe più saggio attendere semplicemente che si dia la morte da solo, visto che è esattamente quello che è venuto a fare? Saito sente che deve acconsentire.

Hanshiro Tsugumo continuerà il suo racconto.

 


Hanshiro Tsugumo tenta in qualche modo di tirare avanti fabbricando ombrelli di carta, che probabilmente rivende in nero ad un distributore: non gli sarebbe consentito avere una attività commerciale.

Nessuna possibilità di trovare un altro impiego come samurai. Edo, dove si è trasferito nel frattempo, è piena di ronin nelle sue stesse condizioni.

Il giovane Chijiiwa sopravvive a stento insegnando ai bambini i classici cinesi.

La situazione è tuttaltro che rosea, e la sola proposta concreta che arriva a Tsugumo lo lascia sconcertato ed indignato: accettare che Miho diventi una delle concubine di un importante daimyo, e rientrare così semi clandestinamente nel mondo che è stato costretto traumaticamente a lasciare.

Scoprendosi improvvisamente imbarazzato ed incapace di affrontare serenamente un argomento così delicato, avendo sempre in vita sua dedicato ogni pensiero al mestiere delle armi, convoca Motome.

Burberamente, sudando copiosamente, gli propone di prendere in sposa Miho, sottraendola alla vergognosa proposta.

Non ignora certamente il sentimento che corre tra i due giovani, e pur rendendosi conto che la loro situazione è estremamente difficile non intende chiudere gli occhi di fronte alla speranza che le cose migliorino.

 

 

Il matrimonio viene celebrato poco dopo.

Due anni dopo nacque un bimbo, a cui lo stesso Tsugumo impose il nome di Kingo.

La piccola famiglia potrebbe cominciare a sperare veramente in un futuro migliore.

Ma la situazione economica e sociale non migliora affatto.

Dopo avere smantellato i clan rivali e quelli che tentavano di mantenersi neutrali lo shogunato Tokugawa ne sta chiudendo anche diversi che erano fedeli alleati da decine di anni.

Tsugumo confessa di non riuscire a comprendere la politica delle autorità, che in questo modo riuscirà solo ad accrescere ancora il numero già esorbitante dei ronin senza meta e senza scopo nella vita.

 

E' in questa circostanza che Tsugumo e Chijiiwa discutono dell'episodio di Sengoku, il potente clan che aveva offerto un impiego al ronin venuto per compiere seppuku, e della ondata di altre richieste calmierate con offerte in denaro.

Chijiiwa aveva commentato che per quanto dure potessero essere le loro condizioni mendicare denaro rimaneva tuttavia azione non degna di un samurai.

Purtroppo il destino lo fece ricredere.

Nonostante tutto i tre vivevano felici, e senza dover rendere conto a nessuno della loro vita, mentre il piccolo Kingo era al centro della loro esistenza.

 

 

Ma proprio da lì iniziò la disastrosa caduta.

Per la prima volta, e sarà l'ultima, mentre lo stuolo di samurai che era poco prima pronto a gettarsi contro di lui ascolta attonito e ammutolito, Tsugumo sembra accusare la stanchezza di un colpo troppo duro da sopportare.

La felicità umana non dura mai a lungo...

 

 

 

 

 

 

Un giorno durante le estenuanti giornate di lavoro, in una casa umida ed esposta alle intemperie, Miho si sentì male, tossendo incessantemente e gettando sangue dalla bocca.

Nei giorni successivi le sue condizioni peggiorarono: non aveva una forte costituzione, ed aveva messo a dura prova il suo fisico per troppo tempo.

 

 

 

 

 

 

Motome, caduto nel panico, tentò invano di trovare un altro lavoro meglio ricompensato per pagare le cure.

Nessuno era disposto ad accettarlo, nemmeno per i lavori più pesanti ed umili, esposti alle intemperie.

Ad un samurai non era concessi che alcuni lavori intellettuali di ripiego, veniva quindi cacciato, spesso in malo modo, ovunque si presentasse in cerca di una occupazione.

Dargli lavoro avrebbe significato sicuramente avere delle noie da parte delle autorità.

 

 

 

 

All'inizio di quell'anno, Tsugumo non potrà mai dimenticarlo, uno stravolto Motome si presentò alla sua porta.

Temette subito il peggio per Miho, ma il colpo doveva essere ancora più duro: Kingo aveva la febbre, alta come se fosse divorato dal fuoco.

I due giovani non hanno nemmeno il coraggio di rispondere alle frenetiche domande di Tsugumo, che vuole sapere cosa ha detto il dottore.

Non hanno interpellato alcun dottore: non saprebbero come pagarlo.

Lo stesso Tsugumo non sa più cosa fare: ogni oggetto di valore è stato venduto da tempo, non possono fare assolutamente nulla per Kingo.

La sua disperazione lo porta a scongiurare il piccolo, che non è nemmeno in grado di sentirlo, di essere degno del nome di samurai e combattere per vincere, da solo, il male.

Fu allora che Motome gli confidò di avere una idea, pur rifiutandosi di rivelarla, e chiamandolo padre lo pregò di badare al bambino, per poi uscire di casa con fare risoluto. Non tornò mai più.

Una lunga attesa in cui ogni attimo sembrò interminabile.

Le sue spoglie tornarono alle  9 della sera, portate da alcuni samurai della casata di Iyi. Formalmente inappuntabili, fornirono tuttavia una versione di comodo completamente falsa, dichiarando che Motome Chijiiwa aveva insistito sulla serietà ed irrevocabilità della sua richiesta.

Mentre Hanshiro e Miho Tsugumo ascoltano, annientati, nella camera accanto il piccolo Kingo agonizza febbricitante.

I tre uomini responsabili dell'ambasciata, dopo essersi congratulati con lui per il comportamento esemplare di Chijiiwa, gli chiedono di esaminare le armi con cui egli si è tolto la vita, notando che le lame sono di bambu, in modo che nessuno possa accusare in seguito la casata di Iyi di averle sostituite per predarle. Tsugumo, che era all'oscuro di tutto, deve subire l'estremo oltraggio di una risata derisoria da parte di Kawabe, che fa notare che un vero samurai avrebbe meritato delle vere lame per porre fine alla sua vita, e getta con disprezzo il simulacro di spada sul cadavere di Chijiiwa.

Non rimane più molto da dire ad Hanshiro Tsugumo.

Lungi dal rimproverare il povero Motome per avere venduto il simbolo della sua casta e del suo onore, l'ha considerato un supremo atto di amore verso Miho, e ha rimproverato piuttosto se stesso per non averci pensato per primo.

Miho pianse ininterrottamente.

Il piccolo Kingo spirò due giorni dopo, senza mai riprendersi dal coma.

Tre giorni dopo ancora morì anche Miho.

 


 

Saito per quanto scosso dalla vicenda del ronin ha deciso che il suo dovere è di salvaguardare soprattutto l'onore della casata.

Chiede se questa era la fine del racconto di Tsugumo. Questi risponde che pensa di sì.

Ma lo ferma ancora, con un cenno imperioso, quando Saito sta per segnalare che si può continuare con la cerimonia.

Ha un'ultima cosa da dire.

 

 

 

 

 

Saito ha di fronte a se un avversario non superabile, che sa esporre le sue ragioni e difenderle, e sa renderle micidiali come il tagliente di una spada. Perché di tanti testimoni presenti nessuno ha avuto l'istinto di chiedere a Chijiiwa cosa lo spingeva a quell'estremo gesto? Perché nessuno ha nemmeno tentato di capire?

Saito difendendo le decisioni degli Iyi risponde che Chijiiwa ha ottenuto quanto era venuto a chiedere, non era possibile conoscere quanto celava invece nell'animo.

Ma invece di accettare serenamente una sorte avversa e probabilmente non prevista, invece di morire con onore da samurai, ha chiesto semplicemente un immotivato e inspiegato rinvio di uno o due giorni, allontandosi così dal percorso richiesto ad un uomo d'arme.

Tsugumo ne conviene, ma ricorda che Chijiiwa per quanto samurai era un uomo composto di carne ed ossa, privato dei mezzi elementari di sussistenza, e se lui ha sbagliato, cosa dire del comportamento di chi ha deciso di gettare sul lastrico migliaia di guerrieri fedeli, e chi dei samurai presenti può garantire che al posto di Chijiiwa avrebbe avuto la forza di comportarsi in modo diverso, in modo migliore? A questo punto, sembra che l'onore del samurai sia un vuoto simulacro, solamente una facciata.

I presenti sono visibilmente colpiti, toccati nel vivo da quelle parole.

Saito rivendicava ancora il comportamente coerente della casata: per gli Iyi l'onore del samurai non è una vuota facciata.

A questo punto Tsugumo inizia a scoprire veramente le sue carte, deridendo l'interlocutore. E assieme a lui tutti i presenti.

E' il momento che sappiano che la sua vendetta è già compiuta.

Chiede a Saito se veramente dubita ancora che lui sia veramente venuto per darsi la morte. Non ha nulla che lo trattenga su questa terra, è anzi ansioso di raggiungere al più presto i suoi cari. Ma non vuole presentarsi loro a mani vuote. 

Quello che chiede è in pratica di portare loro le scuse della casata. Che riconoscano che ci sono stati errori da una parte e dall'altra, che una questione così grave avrebbe potuto e dovuto essere gestita meglio. Se potesse portare con se una sola parola di questo tenore, sarebbe di conforto per Motome.

Saito è obbligato a raccogliere la sfida, a tentare un attacco alle posizioni di Tsugumo. Se veramente pensa che l'onore samurai - cui si richiama anche lui - sia solo una facciata, come pensa di poter essere convincente? Ignora di essere inesorabilmente in ritardo, qualunque cosa faccia.

Tsugumo ha già mosso tutte le sue pedine, ed in maniera letale.

Riprende la posizione formale, sembra dichiararsi vinto, e dichiara di essere pronto per finirla con tutto questo. Ma ancora una volta arresta il kaishaku che si è alzato per prendere posizione dietro di lui.

Deve prima rendere alla casata di Iyi qualcosa che gli appartiene. E' quella in realtà la sua spietata ma non crudele vendetta, che all'insaputa di tutti ha già preso, che nulla e nessuno gli potrà togliere.

 

 



Estrae dalle vesti e getta sprezzantemente a terra qualcosa che sulle prime nessuno riesce ad identificare. E spiega di averli contrassegnati con i nomi, perché non ci siano equivoci. Sono i chommage, le acconciature rituali di due samurai che ha sentito avere la fama di essere i più valorosi della casata di Iyi: Hayato Yazaki e Umenosuke Kawabe. I due uomini che avevano prima crudelmente infierito su Motome Chijiiwa e lo avevano poi deriso dopo morto.

Si rassicurino i presenti: Tsugumo ha preso solo i loro chommage, non la loro vita.

In realtà, recidendo loro il simbolo dell'onore samurai, li ha uccisi spiritualmente lasciandoli materialmente in vita a soffrire.

Qualunque sia l'esito materiale del duello, Saito conosce già in quel momento l'amaro sapore della sconfitta. L'onore degli Iyi è compromesso, e celare la verità non servirà a cambiarla.

La sua sensibilità, che non ha saputo assecondare, che non ha avuto il coraggio di assecondare, ora serve solo ad accrescere la sua sofferenza.

 

 

 

 

 


Hayato Yazaki è stato affrontato e vinto 6 giorni prima, Umenosuke Kawabe il giorno seguente.

Entrambi sono stati pedinati avendo l'accortezza di farsi scorgere, dando loro l'opportunità di mettersi in guardia e combattere ma anche di mettere in mostra la paura che si nascondeva dietro i loro modi arroganti.

Entrambi si sono dimostrati pavidi e sono stati vinti, disarmati, ridotti all'impotenza ed umiliati con il taglio del chommage.

Entrambi si sono nascosti da allora, per non rivelare a nessuno la loro vergogna.

 

 

 

Tsugumo riconosce di avere trovato difficoltà a sorprendere Hikokuro Omodaka, forse allertato dalla sorte toccata agli altri due che in qualche modo aveva conosciuto, e quindi perennemente in guardia.

Ma comunque di una statura superiore agli altri.

In realtà è stato Omodaka a recarsi spontaneamente da lui presso la sua casa ormai vuota, piena di scheletri di ombrelli che nessuno avrebbe mai portato a termine.

Tsugumo si lascia sorprendere: la sua spada è poggiata lontano e Omodaka lo avverte che se tenterà di prenderla verrà tagliato inesorabilmente dalla testa ai piedi.


Ma intende combattere lealmente. Giustificandosi col desiderio di non rovinare la sua lama rischiando di urtarla nel soffitto, non essendo quello il posto adatto per un duello, chiede a Tsugumo di seguirlo nella località chiamata Gojin Gawara e di lasciare una nota per spiegare quanto sta avvenendo, per non scomparire senza lasciare alcuna traccia o memoria di se.

I due si incamminano, silenziosi, camminando a lungo per luoghi deserti avvolti dalla nebbia del mattino, attraverso cimiteri fitti di tombe e boschetti di bambu.

La scena del duello rispetta molti degli stilemi classici del cinema giapponese: la brughiera di montagna ai margini di un cimitero abbandonato, le alte erbaglie scosse dal vento, il cielo tempestoso, l'assoluta concentrazione dei protagonisti.

Lo elevano molto al di sopra della media la consulenza di uno sconosciuto, almeno per il momento, maestro d'armi che ha voluto citare diverse posizioni di antiche scuole di spade, lo dimostrano le posizioni hanmi (in linea) dei piedi di entrambi, che nulla hanno a che vedere con la posizione usuale nel kendo moderno.

Ma soprattutto il carisma dei due attori: Tetsuro Tamba e Tatsuya Nakadai.

Tsugumo commenta, rivolto ai suoi attoniti interlocutori. Omodaka si avvalse del vento a favore per metterlo in inferiorità. Era una idea brillante, ma le brillanti strategie non bastano in battaglia.

Ed occorreve prevedere le infinite potenzialità della katana, la spada giapponese.

Con un colpo che Omodaka pensa di poter facilmente arrestare, Tsugumo spezza invece la sua lama. E' un caso più frequente di quanto si possa credere, la martensite del tagliente, ha, può tagliare l'acciaio più tenero del mune, il dorso della spada con cui si effettuano parate e bloccaggi.

Costretto a difendersi col solo wakizashi, la lama corta, Omodaka sarebbe una facile preda. Ma Tsugumo non combatteva dall'assedio di Osaka, 16 anni prima.

Gli sarebbe stato relativamente facile ucciderlo, prendergli il chommage ha richiesto uno sforzo maggiore. Ma eccolo.

E ognuno sa che farsi tagliare il ciuffo equivale a farsi tagliare la testa, è una dimostrazione di inettitudine, un disonore che nemmeno la morte potrebbe redimere.

Ma c'è di più.

 


Nessuno degli Iyi sarebbe disposto ad ammetterlo, ma Tsugumo li incalza con le sue parole.

Quegli uomini non hanno affrontato il disonore: si sono nascosti, sottraendosi ai loro doveri, sperando che i loro capelli ricrescessero senza che nessuno si accorgesse della loro vergogna.

Ecco la prova che anche nella casata degli Iyi l'onore samurai è solo una facciata. Tsugumo ha vinto, ed è ora il suo turno di irridere il nemico vinto.

Vinto. E disonorato.

 

 

 


Saito cede alla debolezza di cercare una inutile vendetta, che non cambierà nulla. Ordina di uccidere all'istante Tsugumo.

Sarebbe stato saggio seguirne il consiglio e lasciarlo morire di sua propria mano.

L'eco della sanguinosa battaglia, Tsugumo ha lasciato da parte anche i suoi ultimi scrupoli e deciso che non morirà da solo, penetrano nella dimora dove il sovrintendente Saito è in preda dei suoi dubbi e probabilmente dei suoi rimorsi.

 

 

 


Per quanto ripetutamente ferito ed esausto con la forza della disperazione Tsugumo si fa largo tra gli avversarsi, che si ostacolano tra di loro, e penetra nella casa.

Mietendo avversari, senza che nessuno riesca a fermarlo, sebbene le forze lo abbandonino assieme al sangue che esce dalle  numerose ferite, arriverà infine fino al sacrario ove è custodito l'emblema della casata, la rossa armatura di cui abbiamo già parlato.

 

 

 



Sono intanto accorsi degli uomini armati di teppo (fucile) che si schierano a debita distanza davanti a lui - nessuno osa più avvicinarsi - e preparano le armi.

Lo abbatteranno senza che lui possa fare nulla.

In un ultimo disperato gesto di sfida Tsugumo getta al suolo l'armatura degli Iyi, e si trafigge con la sua spada negando al nemico la possibilità di ucciderlo.

Inutili i colpi di arma da fuoco che infieriscono oltretutto sul corpo di un uomo già morto mesi prima assieme ai suoi cari.

 



Dei messaggeri si recano da Saito per un resoconto: Tsugumo è stato ucciso.

Le perdite sono gravi:  4 samurai sono rimasti uccisi, altri 8 gravemente feriti.

Saito ordina di comunicare che 'il samurai di Fukushima' ha commesso seppuku dietro sua richiesta, mentre gli uomini al servizio degli Iyi sono morti di malattia. Nulla deve trapelare.

 

 

 

 


 

Un dignitario arriva trafelato per portare notizie di Omodaka: anche egli si è ucciso, la notte prima.

Come costume giapponese non osa nominare l'atto, lo mima con le mani, inequivocabilmente.

In quanto agli altri due, effettivamente non sono malati e si nascondono per la vergogna.

Saito non ha esitazioni: torni immediatamente da loro ed ordini di togliersi la vita, facendosi accompagnare da un drappello di uomini armati che uccidano immediatamente i due se danno mostra di esitare. Ufficialmente anche queste ultime vittime della collera di Tsugumo saranno morti per malattia.



In un modo o nell'altro tutti i protagonisti della vicenda hanno pagato con la morte i loro debiti.

Saito è invece condannato a pagare con la vita, tenendosi dentro i suoi ricordi ed i suoi rimorsi.

Vivrà per sempre col peso di una terribile verità che non potrà condividere con alcuno.

 

 

 

 

 

 



Dalla dimora vengono rimosse tutte le tracce dell'accaduto.

Il tatami riservato al seppukusha viene rimosso, l'armatura degli Iyi ricomposta nel sacrario.

Mentre viene ripulito il cortile uno degli inservienti raccoglie da terra uno dei chommage, simbolo del'onore samurai.

Lo getta con noncuranza nel secchio pieno d'acqua che avrebbe dovuto essere utilizzato prima per lubrificare la spada del kaishaku e poi per raccogliere la testa mozzata di Tsugumo.

 

 



Il giornale della casata riporta una storia completamente differente.

Vi si dice solamente che un samurai già appartenuto al feudo di Fukushima, apparso a volte confuso nelle sue affermazioni e nei suoi atteggiamenti, ha ricevuto assistenza nel compiere seppuku.

Si apprezza che la notizia del fermo atteggiamento tenuto dalla casata in questo e altri casi simili si sia già diffusa nella città, tra l'apprezzamento generale.

Si chiude così la pagina del registro, alla data del 16 maggio 1630. 

 

Kon Ichikawa: Dora Heita (Gatto randagio)

2000

Koji Yakusho, Yuko Asano, Bunta Sugawara

 

Dopo Cane randagio di Kurosawa, ecco Gatto randagio di Ichikawa, a distanza di oltre 40 anni, quando l'Imperatore, così veniva chiamato Akira Kurosawa, era scomparso da tempo. Eppure un legame con Kurosawa c'è, ed è più forte di quanto si possa immaginare a prima vista. In un momento in cui le loro carriere erano ormai avviate per il meglio ma ancora troppo spesso dovevano piegarsi alle logiche commerciali imposte dai produttori, i maggiori registi del cinema giapponese decisero di unirsi per dare vita ad una nuova casa cinematografica ed essere liberi di esprimersi seguendo soltanto la loro ispirazionei.

Erano Akira Kurosawa, Kon Ichikawa, che in occidente era conosciutissimo per L'arpa birmana, e due artisti da noi meno conosciuti: Keisuke Kinoshita e Masaki Kobayashi, regista di Kwaidan, un film che riprende alcune leggende giapponesi raccolte a fine 800 dallo scrittore anglo-giapponese Lafcadio Hearn, di Joiuchi, la disperata ribellione di un samurai alle disumane regole del clan e dell'altra intensa e drammatica storia di ribellione Harakiri.

I quattro decisero in uno slancio di entusiasmo di chiamare la loro casa di produzione Yonki no kai, che è il termine con cui sono conosciuti in Giappone i protagonisti del celeberrimo romanzo di Dumas I tre moschettieri (che come sappiamo in realtà erano quattro, contando nel numero d'Artagnan). Ma la fortuna non fu benigna con i quattro moschettieri giapponesi e in poco tempo la loro impresa chiuse ingloriosamente. Avrebbe sicuramente meritato un esito migliore. Rimasto ormai, alle soglie del 2000, l'unico sopravvissuto di quel gruppo, Kon Ichikawa decise di rendere un tributo postumo alla memoria degli amici scomparsi portando sullo schermo questa sceneggiatura che avevano scritto assieme.

Il plot in realtà non ha nulla di rivoluzionario. A ben vedere richiama molto quello di Yojimbo che a sua volta è un tema ripetuto infinite volte e che proprio Yojimbo ha riportato prepontentemente d'attualità ispirando da allora tante altre opere, anche occidentali: una oscura cittadina di provincia è caduta in potere di diversi gruppi di malfattori che condizionano la vita anche degli onesti cittadini. E' un tema sempre scottante in Giappone ove gli yakuza hanno un tacito accordo con le autorità: in cambio di una sostanziale immunità ed a patto di non creare pubblico scandalo rimanendo confinati in determinati quartieri i malfattori hanno licenza di autoamministrare i loro feudi, lucrando su quelle attività non del tutto lecite che attecchiscono inesorabilmente ovunque si stabilisca una comunità umana, come il gioco d'azzardo o la prostituzione.

Mochizuki Koheita detto Dora Heita (Koji Yakusho, che è riuscito a centrare molto bene il personaggio) arrivando si presenta ad onesti cittadini, malviventi e spettatori come un antieroe: superficiale e concentrato solo, se pure qualcosa riesce a farlo concentrare, sui suoi frivoli interessi personali. Eppure Dora Heita è proprio l'unico in grado di rimettere le cose a posto e lo farà, dimostrando di essere tenacissimo, lucido e spietato esecutore di una strategia altrettanto lucida ed analitica, mettendo in luce ed in ridicolo per contrasto l'inefficienza e la corruzione dei legittimi rappresentanti delle autorità.

Naturalmente la trama serve solo da canovaccio per permettere all'artista di inserirvi le tematiche che gli sono più congeniali, e lo spunto viene fornito dalla singolare figura del protagonista immaginato dallo Yonki no kai: Dora Heita - Gatto dei vicoli, ossia Gatto randagio, ma anche col significato di donnaiolo - arriva preceduto da una sinistra fama di personaggio temibile per la destrezza nell'uso della spada quanto corrotto, interessato solo al sake, al gioco d'azzardo e alle donne. Apparentemente nulla di inedito, sembra di parlare di uno dei tanti ronin vagabondi che abbiamo già conosciuto altrove.

Il divertimento dei quattro moschettieri avrebbe dovuto iniziare proprio da lì: Dora Heita non è un ronin che agisce semi clandestinamente per impulso personale, è il legittimo rappresentante delle autorità inviato in missione ufficiale: il magistrato titolare dell'inchiesta sulla corruzione della cittadini. Un personaggio strano, che si toglie appena possibile le sue vesti ufficiali: le due spade, l'hakama, il kamishino con lo stemma di famiglia, il ventaglio, la lettera di credenziali

Scopriremo immediatamente che le "credenziali" di Dora Heita sono costruite ad arte: è stato proprio lui a farsi precedere dalla fama di magistrato corrotto e facilmente manovrabile, per avere maggiore libertà d'azione e per non elevare la soglia di attenzione degli avversari.

Dora heita alterna momenti in cui mostra il volto autoritario della legge utilizzando con durezza i suoi poteri (ma scopriremo alla fine che anche quelli se li era in gran parte autoattribuiti), ad altri in cui sembra interessato solo a farsi i fatti suoi, e arriva velocemente al nocciolo del problema: la corruzione non è un male entrato nell'organismo dall'esterno.

Sono gli stessi personaggi incaricati di amministrare la cittadina e mantenere l'ordine pubblico ad essere stati contaminati per primi dal morbo e a stringere un patto scellerato con la malavita.

Di più: anche le stesse autorità "superiori" sono in qualche modo complici se non addirittura causa della corruzione e del degrado sociale: attraverso le tangenti che la malavita organizzata paga alle autorità locali, il feudo contribuisce generosamente alle casse dello stato, e naturalmente lubrifica generosamente la classe politica.

Dora heita si ad esplorare con attenzione ad esplorare il mondo del vizio e della droga, varcando spesso l'ipocrita posto di blocco che dovrebbe separare dal resto della città il quartiere proibito di Horisoto, interdetto ai samura.

Ma che chiunque è lbero di entare celandosi sotto l'anonimato: basta lasciare a casa le due spade e celare l'acconciatura sotto un cappuccio, le guardie all'imboccatura del ponte nel dubbio faranno finta di nulla.

 

 

 

 

Il regista descrive l'ambiente di Hashimoto sia mostrandone singoli squarci.

Un quartiere dei divertimento come ne esistono ancora tanti oggi, in ogni parte del mondo, o un quartiere di ristoranti oppure botteghe: potrebbero essere tranquillamente immagini di Forcella a Napoli o Vernaison a Parigi.

 

 

 

 

 

 

Sia isolando tra la folla vari tipi umani caratteristici.

Le fisionomie sono orientali, i vestiti sono diversi, le acconciature bizzarre, i mestieri non sono più gli stessi.

Ma sono gli stessi tipi umani in fin dei conti che possiamo trovare anche a casa nostra, ovunque essa sia.


Dora Heita farà un uso limitato del suo addestramento marziale, limitandosi a disarmare e stordire i numerosi aggressori. Salvo estrarre finalmente la spada quando viene aggredito da un numero irrealistico di malvimenti, con intento chiaramente satirico contro gli eccessi sanguinolenti di certo cinema chambara ed ovviamente annientandoli tutti, dal primo all'ultimo.

Saggiamente Ichikawa, non disponendo di protagonisti credibili marzialmente come i grandi Mifune e Nakadai sfuma le scene di combattimento e lascia immaginare più che mostrare.

Per i praticanti di arti marziali segnaliamo che le tecniche di disarmo ed atterramento mostrate sembrano spesso varianti più o meno credibili de kotegaeshi dell'aikido, indecifrabili invece le tecniche di proiezione, salvo un momento in cui si può ipotizzare un empinage di aikido o più probabilmente un seoinage di judo, mentre i combattimenti di spada sono avvolti dal buio della notte e lasciano quasi tutto all'immaginazione.

L'approccio di Ichikawa ci sembra saggio: la diffusione della cultura marziale, ormai capillare, non consente più le licenze poetiche del passato. meglio allora astenersi dai trucchi mirabolanti ed alludere, più che tentare di esibire quello che non si ha.

Dopo aver dimostrato di avere capacità di indagine, coraggio al limite della temerarietà e grandi doti di combatente, Dora Heita è solo a metà del compimento della sua missione: l'elite corrotta che ha trascinato al degrado la città deve essere chiamata a pagare. Dietro la perfezione formale dei loro abiti, dei loro gesti, del loro parlare - della loro etichetta insomma - si cela il male assoluto.

La sentenza di Dora Heita è allo stesso tempo più mite e più dura del previsto: non la prigione, segno tangibile di infamia ma soluzione comoda, che esonera dal riparare al male fatto o anche dal sopportarne le conseguenze, ma l'esilio. Esilio dalla terra e dalla casta, costretti a cominciare una nuova vita subendo quello che fino ad allora hanno inflitto ad altri.

Malvagi e corrotti, gli uomini che Dora Heita ha di fronte non sono comunque sciocchi. Capiscono immediatamente la gravità della pena, e si oppongono, minacciano ricorsi.

Dora Heita ha già pronta una alternativa, e ha predisposto nel cortile tutto quanto serve per metterla in atto: chi vuole può sottrarsi sia al disonore che agli stenti di una vita "normale" ponendo fine ai suoi giorni con un onorevole seppuku.

Le nude lame sono già là che attendono. Ma atenderanno invano, i dignitari preferiranno tutti l'esilio.

 

 

Al termine della sua missione, come tutti gli eroi di queste storie, Dora Heita riprende le sue cose, volge le spalle al villaggio e se ne va senza indugi e senza rimorsi per il suo destino. I burocrati incricati di tenere aggiornato il fascicolo non si sono nel frattempo accorti di nulla: la loro ultima annotazione sul registro è che Mochizuki Koheita durante il periodo del suo mandato non si è mai presentato una sola volta in ufficio, rappresentando in definitiva anche da quel lato un caso unico.

Non che la cosa li meravigli più di tanto o che pensino per questo di dover fare qualcosa: per i burocrati la sola cosa che conta è che i moduli giusti siano debitamente compilati.

 

 

La figura femminile rimane in secondo piano in questa opera, come quasi sempre nel cinema chambara (o jidai), dedicato quasi sempre all'azione.

Tuttavia Ichikawa preferisce sfumare sarcasticamente la chiusura su una imprevista fuga di Dora heita di fronte ad un nemico più forte di lui.

La sua donna Kosei (Yuko Asano) che abbandonando Edo è riuscito a scovarlo fin lì e lo segue dappertutto, intralciandone ovviamente i piani.

Dora Heita non abbandona il paese ormai pacificato e sanato accompagnato dalle note di una musica trionfale: si dà vigliaccamente alla fuga inseguito da Kosei. E sappiamo, ovviamente, che ben presto verrà raggiunto e catturato.

O, più probabilmente, che si lascerà docilmente catturare, come in fondo tanti gatti randagi vogliono.

Per esserne sicuro il regista prende le sue precauzioni: invece del focoso destriero che sarebbe stato necessario, Dora Heita compra da un mercante di soja un bolso ronzino che indifferente ai colpi di sprone potrà essere facilmente raggiunto anche da una "fragile donna".

Termina qui l'opera. Un divertissement, un intervallo ricreativo in mezzo alle molte opere "impegnate" di Ichikawa? Eppure sappiamo che l'idea nasce dalla mente di quattro grandi artisti, che non hanno mai trascurato in alcuna loro opera di puntare su temi importanti, e non sembra credibile che Ichikawa nel rendere omaggio alla memoria dei suoi compagni d'arte abbia voluto tradire le loro intenzioni. Insomma: un'opera che dovremmo guardare con maggiore attenzione, che dice più di quanto appare all'occhio distratto dello spettatore comune?

P.S.:

Rivedere queste opere assieme al maestro Hideki Hosokawa aggiunge sempre preziose osservazioni: molte sfumature sfuggono all'osservatore occidentale, come probabilmente sfuggirebbero ad ogni giapponese "moderno" che non avesse una profonda cultura sul passato della sua nazione. Le reazioni del maestro indicano frequentemente quello che prima ci era sfuggito o ci sembrava marginale, non importante. Dora heita in particolare potrebbe anche essere interpretato come una delicata e tutto sommato affettuosa satira di alcune esagerazioni formali dell'etichetta giapponese che fanno perdere di vista la realtà, e che debbono essere ricondotte sui giusti binari da provocatorie e deliberate "anarchie" da parte di persone che sappiano mettere gli strumenti al servizio dell'uomo e non viceversa.

Meriterebbe un discorso a parte la posizione della donna in epoca Edo; per quanto si tratti soprattutto di un'epoca avventurosa - nonostante la denominazione di "pax Tokugawa" - e quindi le opere che trattano di quell'epoca siano piene di azione e lascino spesso la donna in posizione defilata, il loro spazio vitale è molto più vasto di quello che sembri, ed il loro "potere" si estende molto al di là di quello che indicherebbero le apparenze.

Quando appare Kosei di fronte a Dora heita, ma anche Karu di fronte al carismatico Oishi Kuranosuke nei 47 ronin, sempre di Ichikawa, dovremmo capire fin dal primo attimo, da precisi ed inequivocabili segnali, che quelle fragili donne dal sorriso sempre pronto, apparentemente dimesse e sottomesse, comanderanno con mano ferma gli uomini senza che questi possano o vogliano fare nulla di più che abbandonarsi a plateali reazioni, tanto più vistose ed inutili quanto più si rendono conto di avere incontrato una volontà più forte ed allo stesso tempo più serena della loro.

 

Kon Ichikaw: 47 Ronin (Shijusichinin shikaku)
1994
Ken Takakura, Kiichi Nakai, Ko Nishimura,

La saga dei 47 ronin ha avuto numerose versioni su pellicola - forse solo quella occidentale dei tre moschettieri ne ha avute altrettante - che si innestano su una tradizione secolare: la prima rappresentazione della storia avvenne già nel 1706 ma la più celebre versione venn eseguita in un teatro di marionette (joruri) ad Osaka nel 1748 col titolo di Kanadehon Chūshingura o più brevemente Chushingura: "Il tesoro dei fedeli". Narra della implacabile vendetta del clan di Ako condotto dal samurai Oishi contro Kira, dignitario di corte che aveva provocato la morte di Asano signore di Ako e o scioglimento del feudo, i cui vassalli divennero ronin - uomini onda - ossia samurai erranti senza più un signore ed un ideale da servire. Le rappresentazioni di avvenimenti recenti erano probiti dalla censura, quindi le molteplici versioni dell'opera, che fu seguita ben presto da molteplici adattamenti per il teatro kabuki, mascheravano i fatti facendoli risalire ad epoche lontane ed attribuendo ai protagonisti nomi di fantasia.

Ci limitiamo ad un breve riepilogo sulla trama, rimandando per un approfondimento alla scheda dedicata alla vera storia dei 47 ronin. Nel 1701 il signore di Ako, Asano, si trova nel castello di Edo per il suo turno di servizio a corte, e viene incaricato dellla ricezione dei rappresentanti dell'imperatore, che anche loro, provenienti dalla capitale occidentale Kyoto sede dell'imperatore, si recano periodicamente alla capitale orientale Edo ove risiede lo shogun. Asano deve prendere istruzioni dal cerimoniere Kira, ma tra i due non corre buon sangue e durante un alterco Asano estrae la spada e ferisce al volto Kira. Le rigide regole dell'epoca impongono la morte per seppuku a chi impugna le armi nel palazzo di Edo, e la sentenza viene immediatamente fatta eseguire.

Il feudo viene sciolto ed i samurai dipendenti dispersi, ma un gruppo di 47 irriducibili guidati dal sovrintendente capo Oishi attende pazientemente il momento della vendetta per quasi due anni, dissipando i sospetti con una vita sregolata. Finalmente assaltano nottetempo la dimora fortificata dove Kira si è rifugiato, lo catturano e lo giustiziano, recando poi la sua testa recisa sulla tomba di Asano che si trova nel tempio di Sengakuji. Si consegnano poi alla giustizia ed attendono la sentenza: sarà il seppuku anche per loro.

Era improbabile aspettarsi che una personalità artistica di rilievo - Kon Ichikawa - si contentasse di una ripetizione di maniera di una vicenda fin troppe volte narrata. La sua opera si stacca quindi dagli schemi consueti. Da secoli nell'intero Giappone ma anche in occidente, la storia fu tramandata già ad inizio del XIX secolo dall'olandese Titsingh ma divenne popolare solo alcuni decenni dopo ad opera dell'inglese Mitford, in opere dove i 47 ronin venivano additati ad esempio e definiti come abbiamo detto "i fedeli vassalli". Ichikawa non intacca la loro fama, ma si mantiene molto più equilibrato nel giudicare l'episodio che ha originato la tragedia.

La tradizione assegna tutte le colpe a Kira, colpevole di un fallito tentativo di estorsione ai danni di Asano, di avergli per ripicca fornito istruzioni errate rendendolo ridicolo ed infine insultandolo in publico. Ichikawa mantiene invece un alone di mistero sulle ragioni dell'aggressione, che nessuno dei due protagonisti vuole spiegare, Asano nemmeno in punto di morte e Kira solo per chiedere tregua di fronte alla spada di Oishi, che invece gli tronca la parola e la vita.

Il regista astenendosi dal giudizio si tiene in equilibrio tra la versione ufficiale che esce dai rapporti di polizia - ove la colpa viene attribuita ad Asano descritto come una persona superficiale e poco attenta ai suoi doveri - e quella della voce popolare che la fa ricadere completamente su Kira.

Concede però a Kira l'innocenza dalle accuse più infamanti, che sarebbero frutto di una abile propaganda orchestrata da Oishi per giustificare il suo attacco e per contrastare suscitando indignazione le mosse di Irobe che gli crea il vuoto attorno facendo defezionare molti uomini del clan.


La figura di Oishi (interpretato da Ken Takakura) viene infatti ridipinta: è quella di un uomo deciso a tutto pur di rispettare i suoi ideali, di un leader capace di scegliere, motivare e condurre verso l'obiettivo il gruppo di uomini che lo segue, superando ogni ostacolo.

Ma è anche la figura di un uomo con i suoi dubbi, le sue angosce, le sue cadute di tensione.

L'instancabile lavoro sotterraneo di Oishi deve salvaguardare allo stesso tempo diversi interessi contrastanti.

Preparare meticolosamente la vendetta superando gli ostacoli logistici e le barriere poste dal nemico, ma allo stesso tempo tutelare la propria moglie Riku (Ruriko Asaoka) e la propria famiglia anche rinunciando ad essa (la giustizia giapponese infatti si rivaleva anche sulla famiglia delle persone giudicate colpevoli).

Permettere - su questo aspetto Ichikawa iniste - alle centinaia di samurai divenuti ronin di ricostruirsi una vita, anscondendo e sottraendo alla confisca le attività commerciali su cui era basata l'economia del feudo di Asano.

Tentare infine di rendere possibile l'irrealistico ma umanissimo sogno di un futuro ritorno ad una vita "normale", con la ricostruezione di una nuova vita e nuovi affetti.

Ichikawa introduce anche la figura di un antagonista, il metsuke - consigliere dei servizi segreti - Matashiro Irobe (Kiichi Nakai) che dirige nell'ombra le mosse di Kira. Nakai fu premiato per la sua interpretazione, e lo ritroveremo alcuni anni dopo in Mibu gishi den (When the last sword is drawn), che ha riscosso grande successo di critica ma è immeritatamente sconosciuto in Italia, così come 47 ronin anche se il film ottenne diversi riconoscimenti e fu invitato alla Mostra di Venezia (la copia che stiamo recensendo è stata reperita sul mercato USA).

 

Ichikawa punta molto sulla contrapposizione delle due inflessibili volontà, quella di Oishi deciso a vendicare l'oltraggio a qualunque costo e quella di Irobe comandato a soffocare lo scandalo e difendere la vita di Kira.

Inevitabile che la trama conduca ad un incontro tra i due: un incontro pieno di tensione ma anche di reciproco rispetto, che non mira a raggiungere una impossibile soluzione di compromesso ma solamente a conoscere il proprio avversario e riconoscerne se non le ragioni perlomeno le motivazioni.

Gran parte del film, mentre si dispiega l'analisi psicologica dei vari protagonisti, ricostruisce con minuziosità che diremmo scientifica l'organizzazione dell'attacco finale.

 

 

 

Che arriva finalmente.

La vendettta viene compiuta nel quattordicesimo giorno del dodicesimo mese del 1702, mentre cadono fitti fiocchi di neve che ricordano i fiori di ciliegio che cadevano il quattordicesimo giorno del terzo mese dell'anno precedente.

Quando Asano Naganori poneva fine ai suoi giorni ed iniziava l'epopea dei 47 ronin.

 

Kiju Yoshida: Onimaru (Arashi ga oka)

1988. Yusaku Matsuda, Yuko Tanaka, Tomoko Takabe

L'opera è tratta dal romanzo Cime tempestose (Wuthering Heights, 1847) della scrittrice inglese Emily Bronte (1818-1848), che narra la tormentata storia d'amore tra Catherine ed Heatcliff nella desolata ed isolata terra di montagna ove si trova la tenuta chiamata appunto Cime Tempestose.

Yoshida nella intervista che accompagna il film (nell'edizione francese, che ha il titolo di "Les Hauts d'Hurlevent") racconta di avere tenuto questo progetto per molto tempo nel cassetto a causa della difficoltà di girare film d'epoca, che richiedono investimenti elevati.

Lo spunto gli venne fornito dalla lettura di un libro di Georges Bataille, sicuramente "La litérature et le mal" (1957). Uno dei saggi è dedicato alla Bronte ed al suo libro, l'unico che l'autrice ebbe modo di scrivere poiché scomparve giovanissima l'anno successivo alla pubblicazione.

Il secondo capitolo del saggio è intitolato "L'erotismo è l'accettazione della vita fino alla morte". Yoshida rimase molto impressionato da questa frase, e fu allora che decise di tentare una trasposizione del romanzo nel medioevo giapponese. L'occasione come abbiamo detto gli capitò molto tempo dopo, quando per la prima volta gli venne affidato l'incarico di una produzione jidai.

Secondo le dichiarazioni di Yoshida la paternità dell'opera va attribuita in massima parte non a lui ma allo stesso Bataille. Ma va detto che le ambizioni di Yoshida si dimostrano forse troppo alte rispetto ai suoi mezzi espressivi: il regista calca eccessivamente la mano sugli impulsi autodistruttivi dei protagonisti, che indubbiamente erano presenti ed importanti anche nel libro della Bronte, ma che non vengono qui giustificati, lasciando l'impressione che i personaggi abbiano comportamenti e sentimenti in un certo senso casuali, dettati dagli istinti più bassi e a volte non spiegabili nemmeno con quelli.

Sembra in definitiva che per Yoshida il senso dell'amore tra esseri umani sia più legato alla morte che alla vita, e l'insistenza eccessiva sugli aspetti morbosi e necrofili della relazione tra i due amanti, associata alla recitazione enfatica e ieratica che vorrebbe ispirarsi al teatro giapponese, più che dar loro una dimensione sovrannaturale, simbolo di pulsioni universali che travalicano le persone e gli eventi, dà piuttosto l'impressione che la chiave di lettura della trama sia la follia e non il sentimento.

Yoshida trasporta l'azione in una desertica zona vulcanica d'alta montagna, ove la famiglia degli Yamabe custodisce per tradizione - nella Dimora dell'Est - il culto degli dei del fuoco. L'arrivo di un trovatello che il capofamiglia Takamaru (nel cui ruolo appare Rentaro Mikuni) riporta con se dalla capitale, Onimaru, è destinato ad innescare una lunga serie di tragici eventi. Onimaru significa demone, e il trovatello ne ha l'aspetto ed i modi ed è di conseguenza maltollerato dail fratello adottivo Hidemaru.

Nonostante tutto, pur consapevole dei suoi lati negativi, la sorellastra Kinu invece lo ama, ma il destino non vuole unirli né separarli. Kinu andrà sposa al signore rivale della Dimora dell'Ovest ma morirà giovanissima facendo quasi impazzire di dolore Onimaru, nel frattempo divenuto signore dei luoghi.

La figlia di Kinu, che ne porta il nome, ridesterà l'insana passione di Onimaru, ma suo cugino Yoshimaru, figlio di Hidemaru, affronterà il despota e spezzerà finalmente il suo crudele dominio.

 

 

 

Come già detto l'opera lascia una sensazione di incompiuto, nonostante il tentativo di Yoshida sia degno di rispetto e la sua tecnica non manchi talvolta di ricercatezza.

In questa inquadratura, il sottile gioco di ventagli che la rigida etichetta di un'epoca ormai lontana frappone tra Kinu ed il signore della Dimora dell'Ovest, suo futuro sposo.

 

Kinji Fukasaku: Akojo Danzetsu (La caduta del castello di Ako)

1978

Kinnosuke Nakamura, Shinnichi Chiba, Tetsuro Tamba, Toshiro Mifune, Mariko Okada

 

Nel castello di Ako menzionato nel titolo risiedeva il nobile Asano Naganori, che affrontò la morte nel marzo 1701, condannato al seppuku per avere aggredito col suo wakizashi, nel Corridoio dei Pini del palazzo dello shogun, il funzionario Kira Yoshinaka che lo aveva gravemente offeso. Chi si interessa alla cultura giapponese avrà già capito che si tratta della celeberrima storia dei 47 ronin, rappresentata innumerevoli volte nei teatri bunraku e kabuki, più tardi nei cinema ed infine nella televisione. Tutti mezzi di cultura tutto sommato popolare, ma ciò non toglie che si siano cimentati nella rappresentazione di questa storia anche dei grandi maestri, come Kenji Mizoguchi o Kon Ichikawa col suo 47 ronin, per restare nel campo del cinema.

Il lavoro di Fukasaku, che ebbe a disposizione mezzi non indifferenti e i più celebrati attori del momento, non può pretendere di essere un capolavoro ma è comunque un'opera interessante, che cerca di imbastire la trama con un certo equilibrio - pur accettandone la versione più diffusa che addossa tutte le colpe a Kira e lo dipinge come una figura spregevole - e di mostrare il contesto sociale, culturale e politico in cui si svolse la vicenda. Riveste quindi un certo interesse per chi studia il costume giapponese dell'epoca Edo, ammesso che abbia la pazienza di procurarsene una copia sul mercato americano. Per il momento è disponibile solo lì. Ovviamente saranno necessari un lettore di dischi abilitato per la Zona 1 e una tv in grado di accettare il segnale ntsc (quelle più moderne con schermo lcd non hanno problemi). L'audio è in giapponese con sottotitoli in inglese.

La trama può essere riassunta in poche parole: dopo una brevissima indagine Asano viene condannato nello stesso giorno a compiere immediatamente seppuku mentre Kira viene sostanzialmente assolto da ogni imputazione. Il feudo degli Asano verrà sciolto ed il castello di Ako assegnato ad un altro daimyo o raso al suolo.

Ma il consigliere capo del can, Oishi Kura no suke, non si rassegna alla sentenza. Attende oltre un anno durante il quale lui e gli uomini rimastigli fedeli si disperdono e si sono danno alla vita disordinata del ronin senza padrone per reprimere i sospetti.

Il 14 dicembre 1702 (30 gennaio 1703 secondo il nostro calendario) si riuniscono e si armano.

 

Durante la notte, fredda ed innevata, travestiti per sembrare un reparto di pompieri in perlustrazione, attaccano il palazzo fortificato dove si è rifugiato Kira e lo uccidono, vendicando l'onore di Asano e dei suoi fedeli. Consegnatisi poi alla giustizia i 47 ronin verranno anche loro condannati al seppuku, che affronteranno stoicamente. Passeranno alla storia come esempio di lealtà e coraggio.

Fukasuku dovendo affrontare per l'ennesima volta un'opera che tutti praticamente conoscono fin da bambini ha sentito il bisogno - comprensibile - di mettere in luce aspetti da altri trascurati e punta soprattutto sulle difficoltà incontrate da Oishi per frenare i bollenti spiriti dei suoi uomini.

Gli erano rimasti a fianco i più determinati ed irriducibili visto che sono i soli rimasti dopo che gli altri samurai dell'importante feudo, che ne contava oltre 300 di alto rango e migliaia in totale, avevano rinunciato ad ogni proposito di vendetta.

In un breve cammeo Toshiro Mifune interpreta la parte del nobile Tsuchiya, la cui tenuta confina con quella di Kira. Costretto dalle convenzioni e dalle leggi a bloccare l'azione dei ronin, nascostamente l'approva e la protegge.

 

 

Keniji Mizoguchi: Utamaro o meguru gonin no onna

1946

Minosuke Bando, Kinuyo Tanaka, Kotaro Bando, Hiroko Kawasaki, Toshiko Iizuka, Kyoko Kusajima, Eiko Ohara

Tradotta sbrigativamente in italiano come Le donne di Utamaro, quest'opera porta in realtà un titolo ben più descrittivo: Cinque donne attorno ad Utamaro, probabilmente una allusione non troppo velata all'ultima opera di Kitagawa Utamaro, Le cinque concubine di Hideyoshi, che trascinò l'artista in prigione. Come spesso - purtroppo - succede l'edizione francese (Carlotta film - Allerton film, 2007) è molto più ricca di contenuti e meglio curata di quella italiana, e abbiamo scelto di utilizzarla per questa recensione.

Vediamo già nella copertina del dvd le cinque protagoniste, che attorniano il celeberrimo pittore Utamaro (1753--1806), che ebbe vita breve e tormentata per quanto coronata da un successo artistico che sfida il passare dei secoli. Fu ammiratore della bellezza femminile, e aedo del modo fluttuante - ukiyo - del quartiere dei piaceri di Yoshiwara in Edo, la cui rappresentazione diede impulso e vigore alla stampa giapponese, ancora oggi conosciuta soprattutto col nome di ukiyo-e. E tutti coloro che ammirano la pittura giapponese conoscono Utamaro con un preciso appellativo: il pittore delle donne.

Non fu certamente soltanto questo, e solo un artista di vaglia come Kenji Mizoguchi (1898-1956), scomparso prematuramente ma lasciando una intensa produzione a cui Akira Kurosawa guardava con grande ammirazione, poteva rendere possibile il trasporto sullo schermo dei tormenti e delle estasi di Utamaro.

Mizoguchi fu vicino al mondo di Utamaro sia attraverso le sue vicende personali, una sua sorella fu venduta come geisha per sovvenire alle necessità economiche della famiglia, sia come inclinazioni: abbandonò la scuola prematuramente per entrare nell'Isitituto per la Ricerca sulla Pittura Occidentale e prima di dedicarsi al cinema lavorò come disegnatore per il periodico Matha Shinpo.

La sua carriera di regista è precocissima, diresse la prima opera a 24 anni ma purtroppo quasi nulla rimane dei circa 50 film girati negli anni 20 del secolo XX. Le sue opere iniziarono ad avere notevole successo nei tardi anni 30 e negli anni 40. Negli anni 50 ottenne per 3 volte di seguito il Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia, con Oharu donna galante, I racconti della luna pallida di agosto e L'intendente Sansho. Fu stroncato dalla leucemia nel 1956, a 58 anni.

Utamaro o meguru gonin no onna è del 1946, e fin dalla prima sequenza rivela le ragioni della ammirazione manifestata da pubblico, critica e colleghi nei confronti di Mizoguchi. La sua esasperata ricerca della perfezione formale arriva a riportare sullo schermo non solo rappresentazioni fedelii ma formali di un mondo che non è più: ne conserva ancora il profumo.

La processione iniziale ci viene mostrata, anche se brevemente, in tempo reale, senza alcuna concessione al linguaggio sbrigativo e sintetico del mondo del cinema.

Nella splendida stagione della fioritura dei ciliegi, la processione si muove: i gesti lenti e l'incedere solenne dei partecipanti, che seguono rigide procedure a noi non comprensibili eppure chiaramente legate a scopi precisi, i loro abbigliamenti ed accessori inusuali ma portati con la formale naturalezza del celebrante di un rito antico, vengono resi con una maestria che nessuno ha mai avuto prima di Mizoguchi, che probabilmente nessuno avrà mai più.

Utamaro non appare immediatamente: appaiono alcune delle donne da lui amate raffigurandole, come Oshin (Kiniko Shiratao), dal fisico di lottatrice eppure colma di un fascino che solo Utamaro riuscirà a cogliere e rappresentare.

E'  accanto a lei l'editore Tsutaya Juzaburo, il primo che colse l'immenso talento di Utamaro e gli diede fiducia, ospitandolo nella sia casa oltre che farne la figura di riferimento della sua casa editrice,

 

 

 

 

 

 

 

 

Appaiono delle figure di contorno, lo sfondo teatrale che serve a dare maggiore risalto al primattore.

Come l'irruento samurai Eisaki Seinosuke, discepolo della scuola di pittura di Kano che Utamaro ha pubblicamente rinnegato e criticato.

Cerca l'artista per ridurlo alla ragione con la sua spada., entrando minaccioso nei locali dove è abituale la sua presenza, ma nessuno per il momento sembra sapere dove trovarlo.

Tutti parlano di Utamaro, tutti vivono del suo riflesso. Lui apparità solo quando Mizoguchi ha portato al massimo la tensione dell'attesa del protagonista assoluto, annunciato già nel titolo eppure inspiegabilmente in ritardo. Vengono in mente le attese snervanti cui Miyamoto Musashi sottoponeva in suoi antagonisti prima dei duelli.

 

 

 

Ed è in effetti con una serie di duelli che si presenterà agli spettatori Kitagawa Utamaro (sobriamente ma magistralmente interpretato da Minosuke Bandô).

Eisaki continua a cercarlo, sempre più minaccioso, nei luoghi di paicere del quartiere Yoshikawa dove Utamaro amava trascorrere il tempo cercandovi ispirazione per la sua arte.

Ma nemmeno Tsutaya sa dirgli dove rintracciare l'artista, che insegue percorsi aperti solo a lui, ove trarre spunti per le sue opere.

 

 

 

 

 

 

 

Finalmente lo trova: è chiaro che vorrebbe risolvere la questione con la sua lama ma Utamaro, pur accettando la tenzone, si riserva il diritto di scegliere l'arma: si confronteranno sul terreno dell'arte, e ad Eisaki spetta il primo colpo: traccia ad inchiostro, tecnica che non ammette esitazioni e ripensamenti, su un grande foglio di carta, il ritratto della dea della misericordia.

Compiaciuto, e contemporaneamente aggressivo, arrogante,  porge la sua opera all'attenzione dei presenti.

Utamaro, sorridente, osserva che manca ancora qualcosa; con pochi rapidi tocchi - che Mizoguchi ovviamente accenna solo senza osare di mostrare all'opera la mano del maestro - dona all'opera, manieristica e fredda anche se formalmente ineccepibile, un soffio di linfa vitale.

 

 

 

Eisaki è attonito. Vinto. Catturato.

Ben presto abbandonerà anchegli la scuola di Kano divenendo un devoto di Utamaro.

Ma Utamaro al momento non lo degna più nemmeno di uno sguardo, lo lascia al suo stupore ed invita gli amici a proseguire quella piacevole notte in altri luoghi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il successivo duello ha per oggetto una sfida artistica che si compie sul corpo della cortigiana Takasode (Toshiko Iizuka).

Ha desiderio di farsi apporre un tatuaggio, ma l'artista da lei incaricato non osa: ha timore di manipolare quel corpo, desiderato o invidiato da chiunque.

Teme sopratutto di toglierle inavvertitamente con un intervento maldestro anche un briciolo delle sue attrative, e sopraffatto da questo timore decide di abbandonare l'impresa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Utamaro raccogglie la sfida: è una sfida con se stesso, ed allo stesso tempo un omaggio: un omaggio alla beltà.

Si offre di tracciare sul corpo di Takasode il disegno che poi servirà da traccia nell'esecuzione del tatuaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La sua offerta viene accolta con entusiasmo, Takasode comprende che è motivata da ammirazione e rispetto.

L'atteggiamento di Utamaro è quello della persona perfettamente consapevole della misteriosa potenza che attira reciprocamente uomo e donna e non insensibile ad essa, ma assolutamente puro nella sua aperta, sincera, trasparente ammirazione.

Si mette all'opera, con gioiosa concentrazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sceglie come soggetto Kintaro, il mitico samurai Sakata Kintoki, fedele seguace del principe Minamoto Yorimitsu, che nelle leggende popolari è raffigurato come un bambino dalla forza prodisiosa, nutrito ed allevato da una maga benefica delle montagne (yama uba).

Secondo alcune versioni costei era in realtà la sua vera madre, la principessa Yaegiri che si era ritirata tra aspre montagne dopo la sconfitta del suo clan e la morte in battaglia del marito.

Secondo altre infine Kintaro era stato concepito dalle montagne dopo che questi fatti erano avvenuti, figlio di un fulmine scagliato da un drago verso la madre.

Comunque sia, al termine dell'impegnativo lavoro di tatuaggio - Utamaro ha terminato la sua opera rapidamente come al solito - ogni volta che sorriderà Takasode, sorrideranno sul suo corpo anche Kintaro e la madre Yaegiri.

Quando sarà lieta danzeranno per lei Kintaro e Yaegiri, quando sarà triste piangeranno per lei.

 


Utamaro non ama me. Non solo, non può amare nessuna donna. Utamaro ama le donne: tutte le donne.

 

E' questa la conclusione cu è arrivata Okita (Kinuyo Tanaka), splendida cortigiana che è invece schiava di troppe passioni.

Utamaro non si può legare a nessuna donna, non può essere vinto ed avvinto da alcuna donna, pur rispettandole, ammirandole ed amandole tutte.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un'altra delle donne che gravitano intorno ad Utamaro, non come abbiamo detto donne di Utamaro, è Yukie (Eiko Ohara).

E' la figlia di Kano, il pittore dalla cui scuola si sono allontanati prima lo stesso Utamaro e poi Eisaki Seinosuke (Kotaro Bando).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Yukie non sa rassegnarsi alla perdita del giovane, rinuncia alla sua dignità per andare a cercarlo e supplicarlo di tornare da lei, e reinserirsi nella scuola di Kano.

Seinosuke non può accettare, nemmeno vuole: il richiamo dell'arte è più forte di ogni cosa.

Dovrà essere Yukie ad abbandonare la famiglia e la classe samurai per raggiungerlo scegliendo un difficile cammino: quello di divenire la compagna di un artista che ha deciso di sfidare le convenzioni.

 

 

 

 

 

 

 

Un improvviso temporale si abbatte su Utamaro: una sua pubblicazione è stata giudicata offensiva nei riguardi delle autorità.

La sentenza è dura, e colpisce Utamaro nel suo unico punto debole: dopo un periodo in prigione, gli vengono concessi gli arresti domiciliari, ma ammanettato: non potrà dipingere per 50 giorni.

Utamaro deperisce a vista d'occhio, non può vivere senza il pennello. E rischia di andare in rovina anche l'amico Tsutaya: la casa editrice non può reggere a lungo senza l'apporto di Utamaro, il suo artista più prestigioso. La condanna rischia di spegnerne per sempre l'estro.

Occorre fare qualcosa.

 

 

 

 

 

Una nuova sfida per Utamaro viene ben presto trovata. Corre voce che il nobile Matsudaira abbia una strana quanto affascinante abitudine.

Ammiratore della bellezza femminile, è solito ordinare alle più belle dame del suo seguito di recarsi periodicamente sulla riva del mare e pescare per lui, in abiti succinti.


Utamaro: Awabi tori (pescatrici di abalone).

Stampa in trittico eseguita in tecnica nishiki-e (policroma), 1788 circa, particolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'informazione era esatta: Il signore Matsudaira ha radunato un folto gruppo di nobildonne, e con loro si è diretto verso la spiaggia, dove i suoi attendenti gli hanno preparato un seggio, sul bagnasciuga.

Ad un suo cenno le donne si tolgono i preziosi vestiti, rimanendo  con la sottoveste, e si immergono nell'acqua, all'interno di una barriera, per catturare con le mani i pesci che vi sono stati immessi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il gruppetto cui si è aggregato l'artista osserva da lontano, nascosdendosi alla meno peggio sulla veranda di un fabbricato dove è penetrato furtivamente.

Utamaro non sta nella pelle, è ritornato prepotentemente alla vita.

La vista di tanta bellezza è linfa vitale per lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo il primo attimo di rapimento, chiede affannosamente che gli portiino della carta, ed il pennello.

E' ritornato di colpo in se stesso, l'arte lo ha ripreso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La macchina da presa indugia in riprese subacque delle donne intente alla loro pesca miracolosa, sospese in un fluido che le rende quasi immateriali, senza alcun compiacimento o morbosità.

Anche quello di Mizoguchi è un un omaggio sincero e disinteressato alla beltà femminile, ed allo stesso tempo che all'arte di Utamaro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Utamaro: Nofu ni yosuru koi. (Amore verso la moglie di un contadino). Particolare

Fa parte di una raccolta di stampe che rendono omaggio a vari tipi di bellezze femminili.

Oban (grande formato), 36,59 m x 24,5, nishiki-e (stampa policroma).

1795 circa


Di nuovo sulle ali dell'entusiasmo, Utamaro sente il bisogno di studiare un tipo di bellezza che finora gli è sfuggito: non le cortigiane, di infiimo rango od eccelso, non le donne del popolo, non le dame della nobiltà, ma una donna di famiglia borghese.

La bella Oran rimane stupita di fronte alla richiesta di prestarsi come modella ad Utamaro, ma le motivazioni che le vengono fornite sono così convinvcenti, e così pure, che pur sentendosi a disagio all'idea, accetta.

Dovrà forzare la sua natura di donna riservata e superare le convenzioni cui è tenuta una dama di alto lignaggio, ma di fronte ad Utamaro nessuna porta deve rimanere chiusa.

 

 

 

 

 

Mizoguchi ci restituisce una immagine di Utamaro purtroppo lontana dalla realtà dei fatti, anche se fondamentalmente fedele al suo spirito ed al suo percorso di vita.

Non sono ancora chiare le ragioni dell'accanimento contro di lui. Si pensa che l'opera già citata (conosciuta anche come I piaceri di Hiideyoshi con cinque vedove in Edo) fosse apertamente pornogafica, ma alcune tavole sopravvissute alla distruzione non mostrano nulla del genere, limitandosi a rappresentare il dittatore Toyotomi Hideyoshi (scomparso 100 anni prima ma ancora simbolo forte dell'autorità), accanto alle concubine ed alla legittima moglie.

Costei ha per la verità i capelli scioiti, atteggiamento ritenuto inammissibile in un ambiente formale ed addirittura inconcepibile in un ambiente di corte, con un sospetto di lascività.

Utamaro: cortigiana di alto rango (Oiran), dal Hokkoko goshiki zumi, 1794-95. Particolare

L'artista non si riprese mai dal periodo trascorso in prigione: la sua produzione da quel momento praticamente si arresta, e poco dopo sopravviene la morte.

Ma non è questo il messaggio che vuole trasmettere Mizoguchi allo spettatore, non vuole lasciarci con il ricordo di Utamaro sconfitto ed umiiliato.

In realtà anche nella vita reale Utamaro trionfa: il breve periodo in cui venne ridotto al silenzio dalle autorità è sovrastato dalla fama immensa da lui guadagnata nei secoli seguenti.

Il suo esempio venne immediatamente ripreso dagli artisti delle generazioni successive. Mizoguchi ne accenna simbolicamente, quando ci presenta Seinosuke nell'atto di chiedere ad Oran di posare anche per lui.

 

 

 

 

 

 

 

Le vicende rappresentate da Mizoguchi sullo schermo hanno ora una brusca deviazione su una chiave tragica.

La bella Takasode, sul cui corpo Utamaro aveva disegnato il mitico Kintaro con la principessa Yaegiri sua madre, è fuggita dal mondo fluttuante (ukiyo), innamorata del giovane Shozaburo.

Si sono rifugiati in campagna, dove conducono una vita semplice e tranquilla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Okita è però ancora invaghita di Shozaburo, o forse semplicemente non vuole rinunciare ad una sua preda, non vuole ammettere che un'altra cortigiana mostri di avere maggiori attrattive di lei.

Fa di tutto per rientrare in possesso di Shozaburo, arrivando a farlo rapire, ma invano: i due si amano, e per quanto l'unione tra due persone di classi differenti abbia creato scandalo, sono disposti ad affrontare qualunque prova per rimanere assieme.

Questo non riuscirà a fermare Okita: è ormai fuori di se.

 

 

 

 

 

 

 

Shozaburo e Takasode rimarranno assieme, in vita ed in morte: Okita li attende di notte, armata di un coltello da cucina, e li uccide entrambi.

Il meraviglioso corpo di Takasode, onorato dal meraviglioso disegno di Utamaro, giace a terra coperto del proprio sangue.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Utamaro è turbato: questo turbinio di passioni non lo coinvolge direttamente ma non può lasciarlo impassibile.

Trova rifugio nella sua arte, e dove altro potrebbe?

Si fa portare carta e  pennello, e torna a dipingere, si rimette all'opera.

Dapprima freneticamente, in uno stato quasi febbrile, di deliro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poi un sorriso, splendido, radioso, si allarga sul suo volto.

In un mondo in cui l'amore troppo spesso sfocia in passione, desiderio di possesso, gelosia e violenza, Utamaro ama disinteressatamente, e dona con immensa gioia la sua arte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle sequenze finali Mizoguchi ci mostra alcune delle sue opere.

A distanza di oltre 200 anni continuano a mostrare e cantare l'amore, la bellezza e l'armonia.

Delle cose, delle piante e degli animali, degli uomini e - soprattutto - delle donne da lui tanto amate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Utamaro: Awabi-tori (pescatrici di abalone)

Particolare di un trittico in formato oban.

1798 circa

Kenji Mizoguchi: Meitô Bijomaru (La spada Bijomaru)
1945
Shotaro Hanayagi, Isuzu Yamada, Ichijro Oya, Eijiro Yanagi, Kan Ishii

Il successo del cinema giapponese presso il pubblico occidentale sarebbe probabilmente stato maggiore, o addirittura trionfale, se il destino avesse concesso a Kenji Mizoguchi una carriera artistica lunga quanto quella di Akira Kurosawa. L'opera che viene considerata il suo capolavoro, Ugetsu - una lunga saga ambientata in epoca Edo - ottenne il Leone d'argento a Venezia nel 1951. L'anno precedente era stato Rashomon di Akira Kurosawa ad ottenere il Leone d'oro, avendo uno straordinario impatto sia presso il pubblico che presso la critica. Lo stesso Kurosawa ha sempre citato Mizoguchi tra le presonalità che hanno maggiormente influenzato la sua visione artistica,

La parabola di Mizoguchi doveva però concludersi di lì a poco: scomparve nel 1956 a soli 58 anni, vittima di una leucemia, lasciando comunque una prolifica produzione di oltre 90 opere, per la maggior parte completamente sconosciute al pubblico occidentale. Mizoguchi era solito ricordarne 75 circa, ma molte delle pellicole degli esordi sono andate distrutte durante la guerra. Le sue opere sono complemento ideale a quelle di Kurosawa. Basti pensare alla importanza data da Mizoguchi alla figura della donna, spesso protagonista assoluta delle sue opere, mentre Kurosawa riconosceva di non essere in grado di rappresentare  degnamente l'universo femminile e le protagoniste delle sue opere appaiono quasi sempre comprimarie, 

Le azioni dei personaggi di Mizoguchi vengono guardate dall'esterno, asetticamente,  senza gli approfondimenti psicologici cui Kurosawa ci ha abituato per i suoi eroi, che siano volgari malfattori di strada o grandi daimyo.

Meitô Bijomaru è una caratteristica produzione del tempo di guerra: si trattava di opere basate su sceneggiature accuratamente vagliate dalle autorità militari e spesso pesantemente "corrette" per conformarle alla volontà di esaltare le caratteristiche eroiche del popolo giapponese, girate con mezzi ridotti se non addirittura di fortuna e con durata limitata ad un'ora circa data la scarsità di pellicola. Anche Tora no o fumu otokotachi, di Akira Kurosawa, appartiene a questo periodo e a questo genere.

Mizoguchi sembra però allontanarsi da ogni tentazione guerresca e costruisce piuttosto una apologia della via della spada. La trama è semplice, lineare. Kiyone Sakurai è un giovane e promettente artigiano, che apprende l'arte dal maestro spadaio Kiyohide Yamatomori, assieme all'altro apprendista Kiyotsugu. Il lettore avvertito avrà già compreso che l'assonanza dei nomi non è casuale: era la norma che l'apprendista cambiasse il suo nome, gliene veniva assegnato uno nuovo derivato da quello del maestro che lo identificasse immediatamente come suo allievo e successore.


Sakurai forgia una nuova magnifica spada per il suo protettore, Kozaemon Onoda, della cui figlia Sasae è visibilmente innamorato. Amore destinato a non avere un seguito, essendo improbo colmare la differenza di rango esistente tra i due.

Sfortunatamente durante il servizio di scorta al suo signore Onoda deve fronteggiare un agguato: siamo al termine del periodo Edo, all'epoca della sanguinosa guerra civile tra i partigiani dello shogunato Tokugawa e i seguaci dell'imperatore che avrebbe dovuto riprendere il potere temporale. Ma nel pieno della lotta la spada si spezza, e solo l' intervento degli altri samurai salva il signore dalla morte sicura.

Onoda per quanto incolpevole viene rimosso e confinato agli arresti domiciliari. Gli viene offerta dal consigliere Daito una possibilità di uscita, ma l'intercessione di Daito è condizionata: chiede in cambio la mano di Sasae. Onoda rifiuta di considerare sua figlia merce di scambio. Accecato dall'ira Daito lo assale a tradimento e lo uccide.

Ogni speranza o progetto di vita degli eroi della vicenda sembra crollare. Sasae si rifugia in un convento, meditando la vendetta. Il maestro Kiyohide si uccide, sopraffatto dalla vergogna di avere fabbricato spade prive di anima, poste al servizio di cause indegne.

Chiede in punto di morte ai due allievi di continuare la sua opera, ma di forgiare solamente spade che siano al servizio dell'imperatore. I due non si sentono all'altezza del compito: è possibile dare un'anima ad un oggetto, quando si è privi di un ideale e di uno scopo nella vita?

Ma lo scopo lo fornirà Sasae: chiede di forgiare una spada destinata ad uccidere Daito, servendo la causa della sua vendetta e quella dell'imperatore: Daito era diventato uno dei primi partigiani dello shogun.


La fabbricazione della spada, che riesce solo dopo numerosi vani tentativi, occupa la parte principale del film ed è per certi versi quella più interessante, per quanto sia stata rimproverata a Mizoguchi l'eccessiva insistenza su questo tema, che secondo alcuni critici fa pensare ad un documentario sulla fabbricazione della spada giapponese.

Ma la ricerca della perfezione nell'opera materiale è chiaramente la ricerca della perfezione e della purezza dentro se stessi, e i frustranti insuccessi dei due maestri spadai sono il necessario preludio al successo finale, ottenibile affrontando i propri problemi e le proprie contraddizioni interne e non ignorandoli.

L'ultima spada, ricavata dall'ultimo lotto di acciaio che era rimasto, supera la prova del kabuto jiri (taglio di un elmo di acciaio) e viene consegnata nelle mani di Sasae.

Non sarà facile raggiungere Daito: si trova a Kyoto, ove comanda un reparto dello shogun che si trova sotto assedio. Ma il comandante delle truppe imperiali acconsente a richiedere ad una tregua e fa accompagnare Sasae e i due spadai oltre le linee nemiche.

Sasae avrà finalmente la sua vendetta, ed al termine di un combattimento privato che si svolge nel bel mezzo della sanguinosa guerra civile, tra il fischio delle pallottole e l'esplosione delle granate, la spada Bijomaru toglie la vita a Daito. Sasae sarà forse attesa da un futuro più roseo, al fianco di Sakurai: quella battaglia ha segnato la nascita di un nuovo Giappone, in cui ci sarà posto anche per la loro storia.

 

 

Kei Kumai: Il mare e l'amore

2002

Misa Shimizu, Nagiko Tono, Masatoshi Nagase, Hidetaka Yoshioka

Questo bel film è stato "cucinato" con ingredienti di primissima scelta: la sceneggiatura originale è di Aikira Kurosawa, che intendeva girarlo in prima persona e forse farne il suo canto del cigno, e venne affidata dopo la sua morte dal figlio Hisao, produttore, a Kei Kumai. La trama è tratta da un racconto di Shugoro Yamamoto, che aveva già ispirato Yojimbo e Barbarossa. Una storia per certi versi singolare: dopo innumerevoli opere in cui si è narrata l'epopea dei samurai, finalmente ne arriva in occidente una ove la protagonista è una donna.

Verrebbe da pensare che debba essere necessariamente una geisha, altra figura che ha molto inciso sull'immaginario, ma si tratta in realtà di una oiran, ossia di una semplice prostituta di umile rango, che vive ed esercita la sua professione in un desolato quartiere di Edo appena fuori dal distretto ufficiale dei piaceri.

E' vista da Yamamoto, e i maestri che hanno rimaneggiato la trama hanno mantenuto questa impostazione, sotto una luce particolare che la sottrae agli stilemi consueti, che la vorrebbero perduta ad ogni costo e condannata a vedere frustrato ogni suo sogno di riscatto.

Oshin (Nagiko Tono) è infatti una ragazza che sappiamo da un fugace accenno essere precipitata in seguito a una serie di lutti familiari lungo la scala sociale: è di casta samurai, ma le tragiche circostanze della vita l'hanno costretta ad abbandonare il suo paese e prostituirsi nella capitale per mantenere i familiari. Non ha perduto la fiducia nel genere umano e le speranze di una vita migliore, ma apparentemente questo è solo un ulteriore ostacolo, non la necessaria premessa per il cambiamento che attende con ansia.

La sua disperata ricerca di amore la porta sempre ad innamorarsi con eccessiva precipitazione di qualche cliente, e sempre di quelli sbagliati. In realtà ne vedremo solo due: il giovanissimo samurai Fusanosuke (Hietaka Yoshioka) si rifugia nel bordello solo per sfuggire alle ricerche della polizia, dopo aver sguainato la spada nel corso di una rissa e ferito gravemente un avversario.

Oshin lo fa passare per un commerciante suo abituale cliente, talmente ubriaco da non essere nemmeno in grado di svegliarsi per rispondere alle domande dei poliziotti di ronda. Il ragazzo infatti è talmente nel panico da avere completamente perso ogni inziativa.

 

Tornerà. E pur senza malizia, trascina Oshin in un crescendo di vane illusioni.

E' lui a istillarle l'idea che una mente pura non viene intaccata da un mestiere disonorevole, e che un riscatto è possibile. Oshin vuole crederci, ci crede.

L'idea è giusta, è nobile. Ma il primo a non saperla onorare sarà proprio lui.

 

 

 

 

 

 

Le altre ragazze sono solidali con Oshin: si prendono cura a turno dei suoi clienti abituali, sostenendo che lei è malata. E' malata infatti, malata d'amore, e non sopporterebbe di essere toccata da alcun altro uomo.

Purtroppo Fusanosuke non è un uomo, perlomeno non ancora. E' solo un ragazzo che gioca con cose troppo più grandi di lui.

Quando si presenta in vestito di gala al bordello per annunciare una bella notizia, annuncia in realtà la fine dei sogni di Oshin.

 

 

 

Il bel vestito servirà per il suo matrimonio, fissato per la sera stessa. Oshin silenziosamente gli rende la sua spada. Non era consentito portare la spada all'interno dei locali, veniva lasciata all'ingresso e quindi restituirla significa invitare ad uscire.

Le altre ragazze hanno invece una reazione furiosa, una vorrebbe addirittura uccidere Fusanosuke.

Che non può capire: solo ora comprende fino a che punto aveva spinto le illusioni di Oshin ma senza afferrarne il motivo. Dal canto suo era stato solo un bel gioco, destinato fin dall'inizio a durare poco.


La vita di Oshin riprende. Nonostante tutto. La mano di Kumai è particolarmente felice nel descrivere, con succinti quanto efficaci tratti impressionistici, la vita della gente comune nel periodo di Edo.

La vita delle oiran non ha nulla in comune con quella di una geisha di alto livello, e il quartiere dei divertimenti semi-clandestini mostra solo i lati peggiori del "mondo fluttante".

Gli adescamenti avvengono per strada, senza alcun pudore, e tutto è finalizzato al solo, rapido e sbrigativo intrattenimento della carne.

 

 

 

Eppure chi popola quei miseri quartieri è gente tendenzialmente allegra, che si scatena in occasione delle frequenti feste, ma tirando fuori il suo lato migliore.

Quello di chi vive dignitosamente anche i tempi più difficili, accantonando i problemi quando può per vivere almeno qualche momento sereno e privo di inibizioni.

 

 

 

 

 

 

Nonostante la loro vita sia tuttaltro che rosea nemmeno le ragazze del bordello si lasciano abbattere.

Affidano i loro ingenui per quanto realistici sogni alle acque del fiume, secondo una antica tradizione giapponese.

 

 

 

 

 

 

 

Naturalmente Oshin, seguendo il suo destino, troverà presto un altro amore impossibile. E' Ryosuke (Masatoshi Nagase), un emarginato che lotta invano per conquistarsi una posizione sociale.

Dopo anni di duro ed umiliante apprendistato presso un ristorante è stato messo sulla strada da un giorno all'altro per avere osato proporsi come cuoco titolare.

Solo tornando dal padrone armato di un wakizashi (la daga che ogni samurai porta al fianco praticamente giorno e notte, interdetta alla gente del volgo) ha potuto riscuotere quanto guadagnato in cinque anni di duro lavoro. Ma l'ha presto dissipato, e ora non ha alcun futuro davanti a sé.

 

La responsabile del bordello, Kikuno (Misa Shimizu) coltiva anche lei i suoi sogni. Ma sono destinati a scontrarsi contro una realtà impietosa, come quelli di Oshin.

L'uomo che da anni le fa la corte, cercando di convincerla a diventare la sua compagna fissa, getta la maschera e si rivela violento e privo di scrupoli.

Kikuno viene picchiata senza pietà, e lasciata al suolo in condizioni pietose.

 

 

 

 

Ryosuke interviene in sua difesa, ma viene colpito violentemente dall'uomo, che è armato. Armatosi anche lui, lo affronta in un duello all'ultimo sangue, sotto la pioggia battente.

E' lui a uscirne vivo, ma ormai dovrà allontanarsi per qualche tempo, quello sufficiente a far calmare le acque. Kikuno gli fornisce il denaro sufficiente per tirare avanti, Oshin lo abbraccia in lagrime e lo vede allontanarsi.


L'intenso temporale sotto il quale si sono affrontati Ryosuke ed il suo avversario non accenna a placarsi.

Diventa al contrario un vero e proprio uragano, che si abbatte sul quartiere e sull'intera città, seminando morte e distruzione.

Una nota di demerito va, come di consueto, a chi ha curato l'edizione italiana scegliendo un titolo che non permette di cogliere il significato di alcune scene.

Il mare, impassibile, osserva le povere vicende umane. Il titolo originale dell'opera, Umi wa miteita, può essere tradotto appunto con Il mare osserva.

 

Talvolta la natura non si limita ad osservare ed interviene, ma secondo una logica che all'essere umano sfugge. Il mare unisce le sue forze a quelle dell'acqua che piove dal cielo e di quella portata dal fiume.

Il quartiere viene completamente sommerso, aggiungendo distruzione a distruzione.

 

 

 

 

 

 

La notte, al termine della sua furia, la natura assume un aspetto idilliacamente irreale, che contrasta vistosamente con la distruzione che ha apportato nel mondo degli uomini.

Impossibilitate a mettersi in salvo per tempo Oshin e Kikuno si sono rifugiare sul tetto della casa, che l'acqua è arrivata ormai a lambire.

Galleggiano per ogni dove i relitti lasciati dal nubifragio, e la vecchia casa emette in continuazione sinistri scricchiolii: crollerà da un momento all'altro, lasciando le due donne in mezzo ad un mare plumbeo e sinistramente calmo.

Sono rassegnate ormai al loro destino, non vedono alcuna traccia di vita nella immensa distesa d'acqua sotto le stelle. Eppure provano, stranamente, una indefinibile sensazione di pace.

Invece il loro destino non è ancora segnato: su una fragile barchetta, nulla più che un guscio di noce, Ryosuke è tornato indietro per tentare una disperata ricerca, e ritrovatele vive quando ormai non osava più sperarlo, si appresta a trarle in salvo.

Impossibile: la barca è troppo piccola per tre persone, e ha già imbarcato troppa acqua.

Kikuno è irremovibile: i due innamorati devono mettersi in salvo abbandonandola al suo destino: non ha nessuno che l'attenda, nessun posto dove andare.

 

 

 

Il suo bambino, che l'attende in un paese di campagna, per cui risparmiava ogni suo avere, non esiste.

Era solo una bugia dietro la quale Kikuno nascondeva la sua solitudine, e le sarebbero completamente inutili i risparmi di una vita che è riuscita a portare con sé.

Li devono accettare Ryosuke e Oshin, e allontarsi per sempre da quei luoghi che il mare sta osservando impassibile, per farsi una nuova vita altrove.

I due non vogliono abbandonarla, e Kikuno con gli occhi fiammeggianti minaccia di aggredirli se non andranno via al più presto. E' impossibile anche solo pensare di opporle resistenza.

La barca si allontana. Kikuno, finalmente sorridente, agita nel cielo stellato la lanterna, in segno di saluto.

Il tema musicale dell'opera, di Teizo Matsumura, delicato e mai invadente ma sempre presente, risuona per l'ultima volta.